Viviamo un tempo di guerra, un tempo di cambiamenti imprevedibili e irreversibili e di incertezze radicali.
È difficilissimo immaginare quale direzione prenderà il conflitto in Ucraina, se inizierà un negoziato o prevarrà la strategia della cronicizzazione della guerra, se la possibilità della sconfitta spingerà Putin all’uso dell’arma nucleare e la voglia di schiacciare definitivamente la Russia, incarnazione storica dell’impero del male, ieri comunista e oggi autocratico-illiberale, spingerà l’Occidente a reazioni parimenti estreme. Avanzare ipotesi è esercizio sterile. Piuttosto dobbiamo non farci risucchiare dal frastuono bellicista e sforzarci di capire questo tempo nuovo, su cui incombe il rischio dell’olocausto atomico, acuito dall’oltranzismo politico e massmediatico.
Il tabù nucleare è stato infranto e una guerra atomica (magari provocata in modo accidentale) è considerata un’opzione non solo ipotizzabile ma addirittura una strada percorribile. È incredibile come la possibile estinzione dell’umanità o, nella migliore delle ipotesi, il suo regresso all’era della preistoria sia valutata con tanta leggerezza, senza guardare oltre il contingente e senza porsi in una prospettiva storica più ampia. Contro una simile deriva è indispensabile valersi di tutti gli strumenti a disposizione, per quanto piccoli e marginali, per combatterla culturalmente, per sollecitare quanti hanno incarichi politici e di governo a non subire passivamente gli eventi e a rendersi protagonisti attivi nell’imboccare finalmente il sentiero della ragione e della pace.
In questi mesi di guerra abbiamo assistito alla continua demonizzazione del nemico. Rappresentarlo come un pazzo, un criminale e un irresponsabile è funzionale alla logica bellicistica. La distopia personale, la sete di potere, il desiderio narcisistico di segnare la storia hanno un ruolo e un peso niente affatto secondario, ma non sono il motore propulsivo esclusivo che determina gli eventi. Dobbiamo andare alle radici del conflitto in Ucraina se vogliamo superarlo e arrivare alla pace. La responsabilità di questa guerra è indubbiamente della leadership russa, c’è un aggredito e un aggressore, ma l’Occidente deve interrogarsi e capire quali errori ha commesso, quale insensibilità ha avuto e cosa non ha fatto per evitarla. La guerra non è mai casuale e tantomeno inevitabile, ma scaturisce da tensioni, errori, aggressività e incomprensioni accumulate nel tempo e dalla incapacità di concepire e attuare soluzioni alternative allo scontro armato.
Preoccupano molto poi gli effetti del conflitto in corso su ognuno di noi, l’emergere cioè di un sentimento di rancore, di odio, di smania di farla finita non solo con la Russia che ha aggredito, ha stracciato il diritto internazionale e provoca distruzione e morte, ma anche con quella parte della società europea, compreso il cristianesimo, che vorrebbe che l’ipotesi della guerra, in primis quella nucleare, fosse bandita.
Nell’opinione pubblica concretamente si sono venute consolidando due posizioni totalmente divaricate: con Putin non si tratta fino al suo crollo e con Putin si deve negoziare subito. La prima posizione ha acquisito forza essendosi caricata di implicazioni morali, derivanti dalla scoperta delle atrocità commesse dai russi e dalla conseguente impossibilità di trattare con quanti compiono crimini contro l’umanità. Inoltre, pur restando in primo piano il profilo militare, geopolitico ed economico, si è accentuato sempre più il tema dello scontro di civiltà, della difesa dei valori occidentali, dell’irriducibile conflitto tra liberal-democrazie e autocrazie con la conclusione che siamo in presenza di una guerra giusta.
La seconda posizione è corretta sul piano dei principi, ma cercare un compromesso non può significare arrendersi alla sopraffazione, subire il ricatto del ricorso alle armi nucleari, violare il diritto internazionale e sacrificare libertà, autodeterminazione e integrità territoriale dell’Ucraina. Tanto più che la minaccia atomica può divenire un incentivo alla prevaricazione da parte delle nazioni più forti, consentendo loro di scatenare guerre convenzionali e di contare sul fatto che le potenze nucleari, alleate dello Stato aggredito, non reagiscano per non innescare un conflitto distruttivo per l’intera umanità. Inoltre non si può trascurare che il tabù nucleare è una convenzione fondata sull’aspettativa di reciprocità relativa a un comportamento specifico: il non ricorso all’arma atomica non pretende di eliminare la guerra in sé, di mutare la natura umana cancellando la pulsione di morte finalizzata l’annientamento dell’altro.
Quando c’è un conflitto si rompe un equilibrio e il risultato, oltre che distruttivo può rivelarsi anche trasformativo: si può raggiungere un equilibrio più avanzato. La guerra è la patologia del conflitto, la sua degenerazione violenta e l’unico modo per superarla è cercare una composizione. È opinione non solo dei pacifisti, ma anche di autorevoli analisti ed esponenti delle forze armate che finora non ci sono stati seri tentativi di aprire un dialogo e di negoziare da nessuna delle parti. Il fatto che le posizioni siano lontane, non giustifica la scelta di nemmeno tentare di avvicinarle, lasciando che la guerra si avviti in una spirale senza via di uscita. Ovviamente si parte da posizioni di reciproca sfiducia, ma se si continua aprioristicamente ad escludere di incontrarsi e di sedersi intorno ad un tavolo la guerra non finirà mai. Il modo più sensato per scongiurare una simile deriva è cercare la pace, sfruttando ogni possibile spiraglio, nella consapevolezza che l’unica posizione politicamente e moralmente seria ed accettabile è porre fine alla guerra il prima possibile.
Alla fine del 1936 Thomas Mann scriveva: “L’ignoranza anacronistica del fatto che la guerra non è più ammissibile apporta naturalmente per un certo tempo dei “successi” nei confronti di coloro che non lo ignorano. Ma guai al popolo che, non sapendo più come cavarsela, finisse col cercare davvero la sua via di scampo nell’orrore della guerra, in odio a Dio e agli uomini!”. Quanti coltivano dolosamente questa ignoranza e rifiutano il principio per cui, se c’è uno spiraglio di pace va sfruttato subito, non può non essere definito “cattivo” e “malvagio”. Si tratta di aggettivi semplici, ingenui, da bambini, ma sicuramente più chiari di altri sofisticati e più efficaci di tanti giri di parole.