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Suicidi in carcere. Un dramma ignorato

Ott 23, 2022 Scritto da 

 

 

 

Ogni tanto una storia riesce a infrangere la cortina di silenzio e indifferenza che circonda i 55 mila detenuti delle sovraffollate carceri italiane e ci mette di fronte ad una realtà dura e drammatica.
 
L’ultima volta in cui i media hanno mostrato interesse per il mondo carcerario è stato in occasione della triste fine di Donatella Hodo, suicidatasi nella notte tra il 1 e il 2 agosto inalando del gas dal fornello della cella, nel carcere veronese di Montorio, dove era reclusa per alcuni furti, commessi in negozi per procurarsi la droga. Ad accendere i riflettori sulla vicenda è stata la lettera aperta del Giudice di Sorveglianza Vincenzo Semeraro, letta durante il funerale, nella quale il magistrato tra l’altro scriveva: “Ogni volta che una persona detenuta si toglie la vita significa che tutto il sistema ha fallito. Nel caso di Donatella, io ero parte del sistema visto che seguivo il suo caso da sei anni. Quindi, come il sistema, anche il sottoscritto ha fallito”.
 
Impastando diritto, rispetto delle istituzioni e un profondo senso di umanità Vincenzo Semeraro ha restituito dignità ad una funzione importantissima, circondata purtroppo da diffidenza, paura e sfiducia, spesso strumentalizzata politicamente, puntando il dito innanzitutto su se stesso, incolpandosi con coraggio e umiltà di un fallimento che prima che personale è dell’intero sistema per il fatto di non garantire il rispetto dell’art. 27 della Costituzione della Repubblica: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un principio proclamato solennemente ma di fatto impossibile da rispettare, nonostante l’impegno di tanti magistrati e operatori carcerari, in un sistema in cui le strutture detentive non solo non sono a misura di persona, ma rappresentano spesso un incubatore di criminalità. È urgente una riforma culturalmente in linea con la Costituzione per trasformarle in un circuito di ri-educazione e realizzazione di se stessi, una sorta di compendio umano finalizzato a riequilibrare e incoraggiare il reo alla scelta ed alla costruzione non di una vita nuova, ma finalmente consapevole di sé e della misura delle proprie paure e ambizioni. Il carcere deve ritrovare o, meglio, trovare per la prima volta, la sua priorità istituzionale attraverso progetti portati avanti da personale sanitario, educativo, pedagogico, psicologico e sociale qualificato, puntare alla formazione professionale e lavorativa e alla creazione delle condizioni per la ricostruzione di una sana relazionalità. I malati psichiatrici, i tossicodipendenti, le persone affette da malattie degenerative e invalidanti vanno gestite in centri specializzati e vanno applicate pene alternative. I casi in cui i detenuti peggiorano la propria condizione, la dignità dei malati viene calpestata sono troppi e il numero dei suicidi in carcere ha dimensioni spaventose.
 
Donatella aveva un problema di tossicodipendenza, condizione che è giusto definire non reato ma sintomo di una sofferenza, un grido di dolore e inadeguatezza, non da sanzionare ma da curare con il sostegno psicologico, pedagogico, riabilitativo e psicoanalitico. Se a ventisette anni solo con la droga Donatella riusciva a sopportare il male di vivere e a fuggire dalla mancanza di fiducia nel futuro, una volta in carcere, circondata da una solitudine più grande e amara, non ha scorto per sé altra via di uscita che il suicidio.
 
Le persone che impattano nell’uso delle sostanze hanno bisogno di cura, aiuto e sostegno in un percorso di cambiamento. La dipendenza da sostanze riguarda corpo e psiche in un equilibrio sofisticatissimo e l’uso degli strumenti farmacologici e psicologici deve essere finalizzato a migliorare la qualità della vita e accompagnare il processo di cambiamento in coerenza con la disponibilità e la libertà della persona.
 
Purtroppo quanti usano sostanze sono oggetto di stigma sociale, viene considerato vergognoso e innaturale di per sé il comportamento, che invece di costituire un fattore di protezione e scoraggiamento all’uso, finisce per  alimentare atteggiamenti punitivo / persecutori, con la conseguente diminuzione del rispetto nei loro confronti e del loro valore individuale.
 
La morte in carcere di Donatella conferma poi i dubbi sul senso del vigente apparato sanzionatorio, ancor più in assenza di un dibattito coerente e informato tra i cittadini sulla questione droghe e sull’inefficacia della carcerazione. La legislazione italiana è una delle più severe in Europa e il risultato del meccanismo sanzionatorio applicato alle persone dipendenti fa sì che rappresentino il 30% della popolazione carceraria, quando la media dei paesi europei è il 18%. Altro dato rilevante è che i dipendenti da sostanze hanno rappresentato il 39,9% dei nuovi ingressi in carcere nel 2020. Tutto ciò dimostra la necessità di procedere ad una revisione organica della legislazione nazionale in materia di dipendenze (DPR 309/90) e del sistema di cura. Il carcere è un luogo inadeguato per curare persone con dipendenza patologica, in cui anzi finiscono per peggiorare le proprie condizioni correlate alla fragilità complessiva.
 
Il dramma è che la politica preferisce promuovere becere campagne populiste, solleticare gli istinti, farsi paladina di demagogiche e inconsistenti proposte securitarie, piuttosto che affrontare seriamente i problemi, prendere l’impegno di rendere davvero e finalmente umana la Giustizia, con la maiuscola, e far corrispondere i fatti alle parole della Costituzione, sia nelle carceri sia nei tribunali, dove il garantismo suona spesso come una parolaccia, o quasi.
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