“Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani tocca a me, mamma,
Se domani non torno, distruggi tutto,
se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”.
(Cristina Torres Caceres)
Violenza sulle donne e femminicidi rappresentano una delle maggiori piaghe sociali del nostro tempo e sono in continua espansione. Ogni tre giorni una donna viene uccisa da un uomo a causa di matrimoni falliti, abbandoni, tradimenti e divorzi.
Il vaso di lacrime e dolore è colmo e non c’è più spazio per silenzi e rassegnazione.
Occorre fare un grande esercizio di verità, verità scomode ma necessarie per rendere giustizia a tutte le vittime e porre le basi per un cambiamento vero, per combattere alla radice un crimine assurdo e intollerabile.
Il riconoscimento unanime della violenza di determinati comportamenti e la loro condanna è sicuramente un punto di partenza importante. Tuttavia è sbagliato pensare che brutalità e femminicidi siano appannaggio dei mostri, degli anormali e non considerare invece che originano da perduranti conflitti materiali, strutturali, sociali, culturali, simbolici ed economici. Nascondere o comunque non affrontare le cause che le generano significa rendersi complici di una falsificazione della realtà e non porre le condizioni per la loro concreta rimozione, per la tutela dei diritti e della dignità delle donne e per la loro autodeterminazione.
La violenza di genere è sempre conseguente a conflitti causati dalla volontà maschile di dominare, possedere e controllare. È questa una verità inoppugnabile.
Combattere questa modalità distorta di concepire la relazione uomo / donna richiede innanzitutto un percorso di educazione all’affettività, in grado di aiutare le persone, i giovani soprattutto, a costruire rapporti sani, improntati alla reciproca accoglienza e rispetto di cui deve farsi carico certamente la scuola, ma che per essere efficace deve investire ogni ambito della società a partire dalle famiglie.
L’educazione affettiva non è mai neutra e circoscrivibile, ma è il portato di modi di intendere le relazioni, la propria identità, di assegnare significati differenti alla propria sessualità e così via. Se quanti hanno ruoli e responsabilità di governo, a vari livelli, si fanno promotori di visioni culturalmente arretrate e anzi rivendicano l’idea che la scuola serva unicamente a formare lavoratori e il posto delle donne è la famiglia, se gli insegnanti compiono uno sforzo inane per spiegare al mattino che l’amore non è sempre e solo ferita narcisistica e il pomeriggio le nostre televisioni ci propinano incessantemente un unico modello di incontro tra uomini e donne rappresentato dalla predazione assoluta e dal narcisismo come orizzonte ultimo di senso dentro cui collocare ogni contatto, parlare di educazione affettiva è solo un’illusione, in quanto concretamente il modello relazionale proposto e imposto è eterosessuale e patriarcale. Le donne poverine non dobbiamo ucciderle, ma possiamo molestarle, sottometterle, dominarle, decidere per loro, scoparle quando sono ubriache o vestite male, sessualizzare tutti i discorsi a loro riferiti.
Il riduzionismo antropologico secondo il quale la tentazione della violenza maschile ha genesi naturale e il maschio non deve cedere alla tentazione che alberga dentro se stesso da sempre e al di là delle circostanze culturali, sociali, economiche, politiche è un modo pericolosissimo per inquadrare e affrontare il problema, in quanto si finisce per attribuire la responsabilità al singolo, assolvendo il tribalismo patriarcale e risolvendo il tutto con la necessità che ogni maschio lavori in autonomia per frenare la propria natura.
La cultura del patriarcato non è affatto morta, come qualcuno improvvidamente ha sostenuto anche di recente. Dietro la spirale violenta che investe le donne c’è l’idea di una dominazione strutturale che non dipende dalle circostanze sociali o dal momento presente, ma esprime una concezione patriarcale transtorica. Nei fatti è cambiata solo la sensibilità verso il fenomeno, non l’intensità del suo manifestarsi che avviene con modalità differenti e nella sostanza è rimasta sempre uguale a se stessa.
A tutto ciò si aggiunge un ulteriore elemento non meno rimarchevole, rappresentato dagli effetti sociali e culturali del neoliberismo, un sistema economico e politico che ha preteso di funzionalizzare le relazioni, di oggettivare ogni soggetto, di mercificare ogni sentimento trasformandolo in pretesa di possesso e di consumo, nel quale la dominazione si presenta con il carattere semantico della competizione, per cui la relazione si identifica con la prestazione, il misconoscimento è considerato una minaccia all’identità, l’altro è un potenziale nemico e la fragilità un fallimento. L’aver ridotto tutto alla proprietà ha finito così per trasformare le relazioni intersoggetive in narcisismo possessivo.
L’unanime rifiuto e l’aggravamento delle sanzioni penali da soli sono improduttivi ed inutili se non si ha la forza e il coraggio di affrontare culturalmente, politicamente e socialmente questi nodi strutturali che stanno alla base della violenza di genere nelle sue diverse declinazioni.