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Il bonus del disonore

Ago 23, 2020 Scritto da 

 

 

L’indignazione corre sui social in questa estate strana e appesa al filo dell’incertezza. Gli animi si infiammano, dilagano toni duri e parole di condanne contro i profittatori del bonus, destinato alle partite IVA colpite dalla crisi causata dal Covid-19 e finito anche nelle tasche della vituperata casta.    

L’esperienza della pandemia ci costringe a ripensamenti personali e collettivi, a mettere in discussione le certezze che ci hanno finora accompagnato, a ridefinirci e ridefinire la scala delle priorità. Ciò nonostante lo spirito furbesco ed anarcoide che ci contraddistingue non ha tardato a manifestarsi. L’abilità a scansare le regole e se possibile a farla franca, la scaltrezza a cavarcela in situazioni intricate e a trovare l’accomodamento giusto, l’opportunismo elevato a regola e finalizzato a non rinunciare a vantaggi e privilegi rappresentano una nostra dote innata e non c’è virus che tenga. Pensare che i politici possano essere differenti e non lo specchio delle virtù e dei vizi italici è sciocco ed ipocrita, come l’indignazione straripante su giornali e social, che nei commenti di tanti, a ben vedere, maschera un retro pensiero nemmeno tanto inconfessato, una malcelata indulgenza e un’ammirata condiscendenza per un tentativo purtroppo non andato in porto, l’innominabile verità che al posto loro molti altri avrebbero fatto altrettanto.

La circostanza che i politici, ancora una volta, non abbiano perso occasione di dare pessima prova di sé non è perciò affatto sorprendente. Peraltro gli ultimi decenni sono stati punteggiati da una litania interminabile di piccoli e grandi scandali. Siamo passati dalle grandi ruberie di Tangentopoli, vicenda che ha segnato il passaggio di un’epoca e trascinato un’intera classe politica in una fine indistinta e ingloriosa, agli approfittamenti di piccolo cabotaggio, alla rimborsopoli delle mutande verdi, delle penne stilografiche e dei DVD pornografici. Ora tocca ai furbetti del bonus INPS, scoperti con le mani nella marmellata, anzi nel sussidio, di cui hanno usufruito politici di vari schieramenti e ad ogni livello, i quali dovrebbero essere al servizio dei cittadini, promuoverne e tutelarne i diritti e non pensare ad arraffare quanto capita.

Tuttavia bisogna evitare che il discorso assuma toni qualunquisti, uno sfascista e fascista fare di tutta l’erba un fascio, utile ad aizzare le polemiche ma inadeguato a  comprendere la portata della vicenda e le sue implicazioni. C’è una grande differenza tra il sindaco o il consigliere di un piccolo comune, i quali percepiscono indennità di qualche centinaio di euro all’anno per assolvere funzioni in favore della propria comunità per spirito di servizio e un parlamentare nazionale, un presidente o un consigliere regionale nelle cui tasche piovono varie migliaia di euro al mese.

La voce di alcuni dei beneficiati, immancabili ovviamente quelli a propria insaputa, si è levata per giustificarsi e rivendicare la legittimità del proprio operato: se la legge mi riconosce il diritto, perché non dovrei esercitarlo e approfittarne? Altri invece hanno evidenziato che è colpa della legge scritta male. Indubbiamente nella patria del diritto, qual è il nostro Paese, abbiamo perso la capacità di scrivere leggi precise e rigorose, ma nascondersi dietro la mancata previsione dell’esclusione dal beneficio di alcuni, è un tentativo maldestro di scusare condotte indegne: è sbagliata la norma, non la scelta di avvalersene e per questo è giusto essere assolti!

La questione evidentemente non è giuridica, ma etica o comunque giuridica nel senso più alto del diritto, lì dove la norma giuridica confina con la morale e precisamente di etica costituzionale, come sancita nell’art. 54 della Costituzione della Repubblica: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. La norma impone a tutti i cittadini di essere fedeli alla Repubblica non solo come forma istituzionale, ma come res publica, nel senso ampio di cosa pubblica, cosa comune, fedeltà che passa per il rispetto dei principi del vivere insieme e specifica con chiarezza un punto qualificante: i cittadini non esercitano pubbliche funzioni, ma ai cittadini tali funzioni sono affidate. Il rimando alla fides, termine latino che significa fedeltà, lealtà, autenticità e probità è sostanziale. Quanti occupano funzioni pubbliche hanno l’obbligo morale di perseguire il bene comune, non è richiesto semplicemente, come a tutti, di rispettare le leggi ma è imposto un dovere ulteriore: onore e disciplina devono essere il faro del loro agire, la loro guida. Stefano Rodotà sosteneva che il dovere richiamato nella norma costituzionale è più ampio della responsabilità politica, attiene all’esercizio delle virtù repubblicane, è incarnazione di un’etica civile e continuo rifuggire ogni forma di prevaricazione connessa con l’esercizio del potere loro affidato e non a loro appartenente.

Dopo l’iniziale minaccia di fuoco e fiamme, espulsioni e sospensioni dei colpevoli, contando su memoria breve e disattenzione dei più, gli scaltri capipopolo subito hanno messo la sordina alle malefatte dei compagni di cordata, hanno cominciato ad agitare altri spettri e a presentare più convenienti pericoli imminenti.

Questa vicenda meschina, di furbizia e di indignazione piccola piccola, mette in luce che il problema vero sta innanzitutto nell’etica generale del nostro popolo e di conseguenza nella qualità della rappresentanza politica, nella selezione della classe dirigente, che avviene per mano di capi partito, di gruppi autoreferenziali o sotto le sembianze di piattaforme internet che non cancellano i vizi e non premiano la qualità e sicuramente regalerà fiato e consensi ai sostenitori del taglio di deputati e senatori. L’ennesima scorciatoia che finirà per impoverire ulteriormente la politica e favorire il prevalere della mediocrità.

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