“Quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni” (Umberto Terracini – Presidente dell’Assemblea Costituente).
È ormai da diversi lustri che i politici italiani sono ossessionati dall’insana e temeraria ambizione di cambiare la Costituzione e passare alla storia come i novelli padri della Patria. Riscrivere le regole del gioco è un virus che prende e consuma quanti hanno la ventura di ricoprire incarichi nelle istituzioni democratiche, disegnate con paziente e ponderata scienza dall’Assemblea Costituente. Dissertano di riforme costituzionali e meccanismi elettorali, sfornano progetti fantasiosi e stravolgenti l’intero assetto del nostro ordinamento, a volte si accontentano di ritocchi a macchia di leopardo, non meno deformanti e azzardati, funzionali a perseguire interessi contingenti e settoriali.
Partiti e movimenti, in crisi di identità e in affanno valoriale, anziché preoccuparsi di rifondare e ridefinire se stessi attraverso idealità forti e progettualità di ampio respiro, rincorrono gli istinti anticasta e tentano di nascondere le proprie contraddizioni e carenze dietro una vuota predicazione riformatrice, facendo credere che per ottenere la palingenesi della politica occorra cambiare la Costituzione.
Sull’onda della retorica populista e della necessità di ridurre i costi della politica, il Parlamento ha approvato in doppia lettura una riforma della Costituzione per cui i deputati sono ridotti da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Prima dell’approvazione di questa legge costituzionale avevamo un deputato ogni 96.000 abitanti e un senatore ogni 188.000, ora il rapporto è di un deputato ogni 151.000 abitanti e un senatore ogni 302.000. Se l’obiettivo era rimediare alla disaffezione dei cittadini verso la politica e riavvicinarli alle istituzioni, la scelta va nella direzione opposta perchè aumenta la distanza e deresponsabilizza gli eletti rispetto alla domanda di adeguata rappresentanza. Sostenere che ridurre deputati e senatori rende più efficiente il Parlamento, senza riformare competenze e procedimenti che ne regolano l’attività, è surreale. La capacità di Camera e Senato di rispondere alle esigenze del Paese dipende dalla qualità degli eletti, dalla capacità di cogliere domande e bisogni dei cittadini e di rielaborare quanto raccolto per perseguire il bene comune, concetto questo che è il grande assente del dibattito politico, non dal numero dei componenti.
La riduzione di deputati e senatori potrebbe portare ad un innalzamento della caratura politica, culturale ed etica dei candidati, spingendo le forze politiche a proporre agli elettori i migliori e i più competenti, ma questo risultato non è affatto garantito. In un tempo in cui la politica si raccoglie intorno a figure carismatiche, polarizzanti e catalizzatrici di consensi, i cui nomi campeggiano nei simboli elettorali e a volte li oscurano e rimpiazzano, l’effetto potrebbe essere esattamente opposto. Il rischio è che vengano scelte non persone autorevoli e indipendenti, ma quanti assicurano fedeltà al capo, sono meno propensi a staccarsi dalle indicazioni ricevute e approvano tutto quanto viene loro detto, facendo venir meno la funzione rappresentativa del Parlamento, riducendolo a guscio vuoto e favorendo l’affermarsi di una oligarchia autoreferenziale.
La riforma ha un effetto distorsivo sulla rappresentanza dei territori, alcuni dei quali o resteranno privi di propri eletti o saranno sottorappresentati alla Camera e soprattutto al Senato e parti consistenti del corpo elettorale, che votano i partiti minori, verranno escluse dalla possibilità di entrare in Parlamento in palese violazione dei principi costituzionali e democratici: le minoranze sono una ricchezza indispensabile per la democrazia e non possono essere cancellate. La richiesta di alcuni partiti di approvare subito una nuova legge elettorale proporzionale per ovviare a tali distorsioni, non solo conferma l’erroneità di una riforma che causa evidenti squilibri costituzionali, ma soprattutto costituisce una scorciatoia inadeguata e sbagliata perché le garanzie devono essere inserite nella Costituzione, ancor più che quella elettorale è una legge ordinaria, modificabile senza maggioranze qualificate e perennemente in balìa degli interessi contingenti delle forze politiche al momento prevalenti.
Rilevante è poi la questione dei 58 delegati regionali che partecipano all’elezione del Presidente della Repubblica che, se i parlamentari divenissero 600 anziché quasi 1000, acquisterebbero un peso determinante nella scelta della massima carica dello Stato, soprattutto considerato che non sono eletti dai cittadini.
L’argomento più forte a sostegno della riforma è la riduzione dei costi della politica. Il risparmio è invero assai inferiore ai proclami sbandierati, poca cosa rispetto al mare della spesa pubblica, ai fiumi carsici degli sprechi di un’amministrazione inefficiente e cavillosa, che sovente pone ostacoli ed è opaca nel rapporto con i cittadini. “Se una Nazione spende un miliardo in più per avere buone leggi, non si può dire che la spesa sia eccessiva, specie se le leggi saranno veramente buone ed anche se si consideri l’ammontare complessivo del bilancio in corso” (Umberto Terracini). Inoltre rappresentanza e democrazia non sono costi ma valori irrinunciabili! Comunque se il tema è quello della spesa perché non tagliare le retribuzioni, i privilegi e i benefici anziché il numero dei parlamentari?
Nella discussione che ha accompagnato l’approvazione ed ora caratterizza la campagna referendaria, peraltro defilata e in sordina, c’è tanto populismo, una ostilità evidente contro la democrazia rappresentativa e un grande assente: la consapevolezza che la Costituzione non è un assemblaggio casuale ma un sistema armonico di norme. La nostra è poi una democrazia parlamentare. Se cambia anche un solo tassello senza regolare gli altri si determinano squilibri tra i poteri dello Stato, mi mina la natura stessa del nostro ordinamento costituzionale, si mettono a rischio diritti e libertà e il disastro è assicurato.
Il referendum del 20 e 21 settembre 2020 non richiede la necessità del quorum del 50% più uno dei votanti. Decideranno di confermare o respingere la riforma costituzionale i cittadini che eserciteranno il proprio diritto di voto.
Partecipare è perciò indispensabile e dire no è difendere la Costituzione.