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Il ministro Cingolani e la transizione verso l'ignoranza

Dic 12, 2021 Scritto da 

 

 

La politica italiana è sempre sorprendente e il governo presieduto da Mario Draghi non fa eccezione. Presentato come il governo dei migliori, in questi mesi non sono mancate dichiarazioni bislacche dei suoi esponenti. Sia ben chiaro capita a chiunque di dire stupidaggini, ma quando si ricoprono incarichi importanti sarebbe buona norma prestare maggiore attenzione.  
 
A suscitare scalpore, qualche settimana fa, sono state le dichiarazioni del Ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, il quale ci ha fatto dono di una sua perla di saggezza: “Serve più cultura tecnica. Il problema è capire se continuiamo a fare tre, quattro volte le guerre puniche nel corso di dodici anni di scuola o se casomai le facciamo una volta sola ma cominciamo a impartire un tipo di formazione un po’ più avanzata. Serve formare i giovani per le professioni del futuro: quelle di digital manager per la salute, per esempio”. Il ministro ovviamente non ha una particolare avversione per le guerre puniche, il suo era solo un esempio, buttato lì magari in modo estemporaneo, ma sufficiente a palesare la sua idea di istruzione e formazione per la scuola del futuro. Evidentemente nella sua visione lo spazio dedicato alla cultura umanistica è troppo ampio, un tempo sciupato, sottratto alla conoscenza della scienza, della tecnologia e dei loro successi. Pertanto bisognerebbe mettere mano ai programmi scolastici ed universitari e ridurne ulteriormente i contenuti umanistici. Un orientamento niente affatto originale invero, operante da tempo in Italia e comprovato dalle sempre più scarse risorse pubbliche destinate allo studio e alla ricerca nelle discipline umanistiche. Al di là dell’ostinato dissenso di pochi docenti resistenti, è stata accantonata l’idea che la funzione della scuola sia di formare le coscienze e stimolare ad una conoscenza critica, a favore di quella per cui il compito dell’istruzione è modellare persone adatte al mercato. Una convinzione divenuta una sorta di epidemia, che ha prodotto un cambio radicale di paradigma, al punto che qualsiasi altra visione è considerata inutile, velleitaria e antistorica.  
 
A sconfortare è non solo la superficialità con cui sono stati riaffermati concetti totalmente erronei, che danni gravissimi hanno prodotto in questi anni sotto il profilo democratico, culturale e formativo, ma che a farlo sia un Ministro della Repubblica, il quale dovrebbe avere come obiettivo essenziale il bene comune.
 
Simili periodiche prese di posizione ci offrono comunque l’opportunità di riflettere e riaffermare alcuni concetti basilari, nella speranza che facciano breccia e sollecitino un ripensamento.
 
Innanzitutto appare ridicola la contrapposizione tra materie scientifiche e umanistiche e fuori dalla realtà qualificare utile il sapere preciso e concreto e superfluo quello culturale e creativo, come se un fisico non potrebbe avere idee creative e uno storico compiere il proprio lavoro con rigore e precisione. La formazione poi non consiste nella quantità di nozioni, teoremi e formule trasmesse, ma nelle competenze e nei linguaggi acquisiti, nello sviluppo di un modo autonomo di ragionare e relazionarsi, gli unici in grado di fare la differenza. I grandi tecnocrati senza conoscenze storiche e umanistiche inoltre difficilmente saranno operatori creativi e flessibili, in grado di affrontare la complessità e gli imprevisti.
 
La scuola non può e non deve essere ridotta a un centro di avviamento professionale, in cui lo Stato si fa carico di insegnare un mestiere per sollevare le imprese dall’onere d’istruire i nuovi assunti e consentire loro di massimizzare efficienza e profitti, ma deve preparare alla vita e questa non si riduce al solo mondo del lavoro. Insegnare qualche abilità tecnica, tralasciando la formazione teorica generale, significa creare ottusi calcolatori capaci di usare un solo programma i quali, una volta divenuto obsoleto, non possederanno l’elasticità mentale per districarsi con uno nuovo. Veramente un grande servizio alle nuove generazioni!
 
La sfasatura con la realtà che affligge gran parte della politica non risparmia il ministro Cingolani, il quale è talmente proiettato in un domani immaginifico da non avere dimestichezza col presente, in cui la stragrande maggioranza dei lavoratori non ha nulla a che fare con le tecnologie digitali e avveniristiche cui fa riferimento e il mercato del lavoro odierno nemmeno ricerca figure con simili caratteristiche. Questo non significa non pensare in prospettiva, solo che invece di porsi il problema dei digital manager della salute, servirebbe forse nell’immediato preoccuparsi dei Pronto Soccorso al collasso e del fatto che medici e infermieri non vogliono lavorarci.
 
Le parole del ministro poi rivelano un’idea del percorso lavorativo antiquata, per cui si studia una professione a scuola o all’università e la si esercita fino alla pensione, quando la maggioranza delle persone cambia lavoro continuamente, sia relativamente agli ambiti che alle competenze. Inoltre mentre la gran parte fa lavori normali, si parla solo di robot e intelligenze artificiali che a breve li soppianterebbero. È probabile che si ripeta quanto già accaduto: si diceva che il futuro si giocasse tutto su terziario digitale, web, social network, management e marketing ed oggi invece le aziende non sanno che farsene di simili figure. Il paradosso è che se dovessimo fare una previsione seria, dovremmo puntare sui lavori che l’automazione e i robot non potranno compiere e hanno a che fare con la cura delle persone, medici, infermieri, badanti, insegnanti, artisti, o del territorio, agricoltori e quant’altro.                                                                     
 
Infine il ministro evidentemente pensa che il lavoro è solo un mezzo con cui le persone contribuiscono ad aumentare il PIL dello Stato e si procurano da vivere e la disoccupazione e la scarsa produttività si combattono e si risolvono attraverso scuole tecniche e incentivi alle imprese, affinché assumano o investano in innovazione: una concezione non da guerre puniche, ma sicuramente ottocentesca, che guarda alle persone come oggetti funzionali alla produzione, parti di un ingranaggio, quando invece hanno emozioni, valori e desideri che non si annullano nemmeno se hanno la pancia vuota.
 
Se dobbiamo ripensare la scuola e il mercato del lavoro, sarebbe il caso di ripartire dalle persone, dallo sviluppo integrale, mettendole in condizione di ricercare il senso della propria esistenza e di godere della bellezza della cultura in tutte le sue manifestazioni.
 
Questa sarebbe una vera rivoluzione.
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