Quando l’ultimo dei salvati tornerà a congiungersi ai milioni dei sommersi, resterà solo la parola scritta a raccontarci la lunga notte della ragione, l’abisso dell’indicibile. La memoria sta diventando sempre più indiretta, un racconto di voci instancabili di scampati che vanno scomparendo.
Il ricordo della Shoah sta entrando in una dimensione nuova, il rito della memoria, la visione collettiva dell’orrore che finora abbiamo pensato appartenesse ad altri, in quanto racconto del vissuto di coloro che ne portano impressi nel corpo i segni indelebili, sta per compiersi, ma non possiamo accontentarci che si riduca ad un grande libro composto di testimonianze, diari, saggi storici, opere di riflessione filosofica, milioni di pagine, di più o meno agevole consultazione, a disposizione di quanti vogliono, scritti da normali cittadini trasformati dalla sorte matrigna in narratori, intellettuali e filosofi, i quali si sono cimentati con l’analisi dell’inferno in terra, o al massimo a celebrazioni stanche, ripetitive e consolatorie, occasioni per manifestare un’indignazione di maniera.
La coscienza del genocidio deve mettere radicalmente in discussione il nostro piccolo mondo fatto di convinzioni e scusanti, sollecitarci a riflettere non solo sull’accaduto ma soprattutto sulla possibilità che possa tornare ad accadere e ognuno di noi potrebbe essere il volenteroso carnefice di una nuova futura Shoah. Il punto essenziale è verificare se la lunga stagione delle testimonianze ha lasciato in noi tracce sensibili e indelebili, se ha generato gli anticorpi per immunizzarci contro la barbarie del nazifascismo, se ci ha messi in condizione di riconoscere nelle vene del nostro tempo i segni piccoli e grandi del ripresentarsi, magari in forme mutate ed ingannevoli, di quel baratro di disumanità che ha precipitato la nostra millenaria civiltà nel raccapriccio inesprimibile dei campi di sterminio.
Risposte sicure non ce ne sono, poiché non esistono antidoti talmente efficaci da preservarci dal sonno della coscienza collettiva, pur se è legittima la speranza che, tenendo desto il senso della responsabilità personale e alimentando il sentire profondo dell’appartenenza alla stessa comunità umana, possiamo sconfiggere pregiudizi, paure e menzogne, congegnate e alimentate dai professionisti dell’odio contro l’altro e il diverso per sensibilità, cultura, credo religioso e orientamento sessuale. Finché anche un solo uomo penserà, leggerà e si informerà su quanto accaduto, la rimozione sarà bandita.
Dobbiamo riflettere su noi, sulle nostre scelte, particolarmente su quelle in apparenza più semplici e banali, magari effetto di consuetudini, sulle nostre reazioni istintive o meditate alle avversità, sugli sforzi messi in atto per raggiungere i nostri traguardi e soddisfare le nostre ambizioni personali. In ognuno di noi può celarsi il piccolo uomo, onesto e laborioso, immerso nei propri affetti e nei propri affari, che al sopraggiungere di un avvenimento che anche solo potenzialmente rischia di mettere in discussione le proprie consolidate certezze, chiude la porta a quanto gli accade intorno, si barrica nella zona grigia di chi non prende parte, nel territorio di apparente neutralità che anzi rivendica orgoglioso e così si fa complice del male. A tal proposito torna alla mente un’altra zona grigia, quella abitata dagli schiavi privilegiati dei campi di concentramento, di cui Primo Levi racconta nelle sue opere, o dai numerosi bravi cittadini che volsero lo sguardo altrove per non vedere e non sapere, sebbene una tragedia immane si stesse consumando dinanzi ai loro occhi, i quali ripetevano: “Io non c’entro nulla, non è affar mio”. E così ci trasformiamo in ciechi replicanti di gesti solo apparentemente innocui, che sono invece la radice di un consenso di massa acritico a sostegno di ideologie totalitarie e concezioni criminali che annichiliscono l’uomo, ne calpestano diritti e dignità.
La storia della Shoah non è che la nostra storia e racconta tutto di noi, dalla forza che mai immaginiamo di possedere giù fino agli abissi della miseria morale, al silenzio anche quando si sa che fa male, all’indifferenza che ci porta a negare l’evidenza.
Raccogliere il testimone degli ultimi sopravvissuti, assumere la missione di tenere accesa la lampada della memoria, sentirci coinvolti in prima persona è indispensabile per mostrare a noi stessi e agli altri dove può arrivare l’uomo che perde la propria umanità. Parlare, raccontare, rivivere il dolore del più folle dei progetti, lo sterminio di una razza, dei diversi, omosessuali, disabili, rom, sinti, popoli slavi, di chi non la pensava come il tiranno, gli oppositori politici, servono a far comprendere cosa significa costruirsi un nemico per dimostrare di poterlo annientare, cosa genera l’odio messo al servizio di una volontà di potenza incontrollata, fin dove il sadismo può inquinare le nostre società aperte ed evolute, dove può arrivare l’istinto, liberato dalla coscienza, nell’esaltare la soddisfazione di sentirsi proprietari della vita al punto di distruggere i corpi delle persone, riducendoli in fumo e cenere per cancellare ogni loro traccia passata, presente e futura, di annientare la loro anima per privarli della loro identità, trasformarli in un numero da marchiare sul corpo, usarli come degli stuks, ovvero dei pezzi di materia prima.
Nella Shoah si è incarnata la negazione stessa della nostra civiltà, che ha origini ebraiche e cristiane, ha incontrato il mondo islamico, ha conquistato l’Illuminismo e costruito la propria convivenza sul diritto, si è battuta contro la barbarie e la difesa della dignità umana, ha cercato di offrire un’idea della bellezza della persona e delle persone che vivono insieme nella nostre città e nei nostri paesi, ma che ha fermato la propria corsa verso il desiderio di libertà sulla soglia dei cancelli dei campi di sterminio.
Affinché tutto questo non accada più dobbiamo fare nostra l’ingiunzione espressa nel Libro del Levitico (19,16), dalla portata etica fondamentale, indipendentemente dall'essere o meno credenti: “Non [...] coopererai alla morte del tuo prossimo”.