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Referendum. Le ragioni del fallimento

Giu 19, 2022 Scritto da 

 

 

La tornata referendaria sul tema della giustizia e della magistratura si è conclusa con una sconfitta clamorosa, un disastro senza precedenti per i promotori dei  cinque quesiti. Gli italiani hanno disertato i seggi e il numero dei votanti è stato sideralmente inferiore alla soglia prevista in Costituzione: il 21% contro il 50,1% necessario.
 
In questi ultimi anni il fenomeno dell’astensionismo è venuto assumendo dimensioni allarmanti, accrescendosi ad ogni passaggio elettorale. La sonora bocciatura dei referendum è peraltro soltanto l’ultima di una lunga serie e per tale ragione deve farci riflettere anche e soprattutto sull’uso improprio di questo importante strumento di democrazia diretta, aiutarci a comprendere i problemi di fondo, finora ignorati o sottovaluti, che stanno alla base della sua crisi, a cominciare dalla sfiducia dei cittadini verso la politica e le istituzioni e dalla convinzione dell’inutilità della partecipazione, dal momento che il più delle volte la volontà popolare espressa è stata aggirata e ignorata.
 
La proposta avanzata da alcuni di eliminare il quorum strutturale per la validità delle consultazioni referendarie è irricevibile, una acrobazia surreale. Al crescente astensionismo non si può rispondere istituzionalizzando il non voto, rendendolo il fulcro di una possibile riforma, soprattutto non considerando che la mancata partecipazione alle consultazioni referendarie è cosa ben diversa dal non votare alle elezioni politiche o amministrative, dato che costituisce una opzione espressamente prevista nella Carta Costituzionale. L’abrogazione di una legge poi non è questione da risolvere fra pochi intimi e ben affiatati, a meno di non voler ridurre la democrazia a farsa e fare della riforma della Costituzione la scorciatoia per rimediare alle incapacità, alla crisi di rappresentatività e al fallimento della classe politica.
 
Se l’80% degli aventi diritto al voto non è andato alle urne, la ragione va ricercata anche nei quesiti referendari, nella distanza percepita tra gli stessi e il vissuto degli elettori e non ultimo nella consapevolezza della loro non immediata e diretta funzione risolutiva dei problemi della giustizia. I referendum, come ogni appello diretto al popolo, implicano poi la necessità di semplificare i temi e le scelte da fare, riducendo la risposta ad un sì o un no. Così è avvenuto quando i cittadini sono stati chiamati a pronunciarsi su divorzio, aborto, nucleare, ergastolo, beni comuni, liberalizzazione delle droghe leggere, eutanasia. Quando il quesito è tecnicamente complesso e specifico, l’unica possibilità di successo è affidata alla demagogia, che è spesso figlia dell’inganno.
 
La scusante principale ripetuta in questi giorni per spiegare il fallimento dei referendum è stata la mancanza o comunque la scarsa informazione fornita dai mass media. È un’affermazione sbagliata e irrispettosa dei cittadini, considerati bisognosi di corsi di recupero per orientarsi e capire e non si tiene conto che aver propagandato i referendum come strumenti per arrivare a una giustizia giusta, formula pomposa e autoreferenziale, ha finito per fuorviare le persone e aumentare diffidenza e distacco verso l’iniziativa. Cancellare la legge Severinodisciplinante le ipotesi di incandidabilità, o l’intero impianto delle misure cautelari, non solo detentive, previste in caso di rischio di reiterazione del reato, avrebbe creato vuoti gravi e pericolose disfunzioni nel sistema giudiziario. Arginare la politicizzazione della magistratura cambiando le modalità di elezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura ed eliminando la necessità della raccolta delle firme, rendere partecipi gli avvocati e gli altri membri non togati del sistema di valutazione dei magistrati e separarne le carriere giudicante e requirente, impedendo il passaggio dall’una e all’altra, possono essere anche scelte efficaci e giuste se poste all’interno di una revisione organica, necessariamente da realizzarsi in Parlamento, che rimetta ordine nel sistema giudiziario, oggetto in questi anni di ripetute e dannose controriforme.
 
I cittadini hanno capito che gli obiettivi dei referendum non avevano quasi nulla a che vedere con i problemi della giustizia e rappresentavano una sorta di giudizio ordalico, una resa dei conti tra poteri dello stato. La scelta poi di presentarli come lo scontro tra il Davide, garantista e autoproclamatosi salvatore dello stato di diritto, e il Golia della casta dei magistrati, sempre pronti ad angariare gli innocenti e a fare strame dei diritti e di proporre Luca Palamara, ex giudice che con il suo Sistema la magistratura ha contribuito a conciarla male, come portabandiera dei sostenitori dell’abrogazione si sono rivelati dei boomerang che hanno spinto la quasi totalità dei cittadini a fare una scelta politica e a sconfessare l’operato dei propri rappresentanti in Parlamento.
 
Il sistema giudiziario ha bisogno di una riforma complessiva, costituzionalmente orientata, che garantisca autonomia e indipendenza alla magistratura (art. 104 Cost.), assicuri una ragionevole durata dei processi, non contraddica il principio del giusto processo (art. 111 Cost.) e non pregiudichi la tutela dei diritti e le garanzie di difesa (art. 24 Cost.). Abbreviare i tempi senza compromettere le garanzie non è una sintesi facile: bisogna evitare una sentenza rapida ma sbagliata oppure una sentenza giusta dopo troppo tempo. Raggiungere simili obiettivi richiede interventi non solo sulle regole processuali, ma anche e soprattutto una riduzione del numero delle previsioni penali a favore di forme alternative di tutela sociale mediante la depenalizzazione di delitti oggi ormai di scarsa pericolosità sociale e la riqualificazione dell’azione penale con riferimento ai reati di maggiore impatto e disvalore, l’intervento sulle carceri per ridurre il sovraffollamento, l’incentivazione della rieducazione e del reinserimento sociale dei condannati (art. 27 Cost.), una formazione adeguata e continuativa dei magistrati che oggi è alquanto scadente, un processo civile efficace e rapido fermando il tentativo in atto di privatizzazione della giustizia.
 
Ci avviamo alla scadenza naturale della legislatura e il bilancio in tema di giustizia è di cinque anni perduti e di risorse sprecate. All’indomani di questa manifestazione di sfiducia dell’elettorato, le forze politiche dovrebbero responsabilmente individuare i nodi veri della questione giustizia e assumere l’impegno ad affrontarli e risolverli ormai nella prossima legislatura.
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