L’interesse generale sembra svanito. All’interno del dibattito politico non esiste più un punto di vista pubblico, si è frantumato il concetto di comunità. Partiti e movimenti politici vengono creati, plasmati, si sfaldano e si dissolvono con facilità impressionante, legati ad un personalismo esasperato e ad una identità emotiva che si sviluppano secondo categorie lontane da quelle che siamo stati abituati a conoscere.
L’agire politico ha smarrito la dimensione della polis, il senso dell’intero, l’essere rivolto a nessuno in particolare e a ciascuno in generale, in altri termini l’idea del bene comune, in base alla quale presentare proposte, declinate talvolta per settore, industria, scuola, sanità, agricoltura e così via, ma pur sempre interessi generali, suddivisi per categorie e coniugati in termini di classe, ideologia o territorio, su cui chiamare i cittadini ad esprimere il proprio consenso.
L’irrilevanza dei programmi politici testimonia questo declino: nessuno li legge e li conosce. Per lo più si riducono ad un formalismo burocratico e concretamente prevalgono non il ragionamento, la progettualità, la visione del futuro ma le parole d’ordine. Al declinare dell’identità sociale ed economica fa da contraltare l’affermarsi di una reattività emotiva agli eventi e la sua sostituzione con identità settoriali e incredibilmente più potenti: essere vegani finisce per assumere una identità ben più importante di tutte le variabili socio-economiche; certo ambientalismo assume una connotazione identitaria onnicomprensiva; i gruppi più radicalizzati del tifo calcistico creano identità inossidabili; il possesso di un animale domestico crea appartenenza più della politica; l’identità di quartiere è più forte di quella della città. Se essere è solo la percezione di se stessi, se l’identità è data non oggettivamente, cioè dai elementi storici, demografici e anagrafici, è evidente che siamo in presenza di una grande frammentazione.
La gran parte dei cittadini non pensa che il proprio destino possa essere determinato dalla politica. D’altra parte se l’80% del bilancio pubblico è costituito da spese dovute (pensioni, stipendi, trasferimenti agli enti locali, ecc.) quello che potrebbe costituire uno strumento per cambiare il destino delle persone, in realtà può cambiare assai poco. Al di là delle leggi di principio, il resto è un continuo mescolare e calibrare incentivi e disincentivi.
Tuttavia l’impotenza riformatrice della politica è fenomeno recente, dato che l’Italia così come la conosciamo è stata costruita da una politica capace di cambiare le cose in maniera sostanziale: scuola, sanità, trasporti, informazione, economia e comunicazioni.
A determinare l’attuale scompaginamento del tessuto sociale è stata l’evoluzione dei media. Se inizialmente la televisione ha contribuito a costruire una identità reale del Paese, l’intervenuta frammentazione e il declino delle ideologie politiche tradizionali lo ha terremotato, ha destabilizzato i discorsi, distinti ma concorrenti, che si muovevano, seppur da prospettive diverse, nella direzione comunque del bene comune. Gli interessi si dividono ora quasi esclusivamente per target e impediscono il formarsi di un’opinione pubblica sincronizzata sullo stesso tempo. Gli algoritmi che governano internet sono strutturati per far soggiornare gli utenti su un singolo sito o app, gli forniscono esattamente, singolarmente, molecolarmente quello di cui hanno bisogno, o per cui hanno preferenza. Si formano in tal modo delle bolle autoreferenti (anche in ambito politico) e ogni legame collettivo si perde nel nulla.
Tali cambiamenti hanno investito il sistema politico ed emerge la necessità di un ripensamento profondo della funzione e del ruolo dei partiti, che ormai svuotati di riferimenti ideologici si sono trasformati in mondi identitari autoreferenti e iper-frammentati.
I partiti post-interesse generale, al di là delle forme organizzative, se vorranno assolvere ancora al ruolo stabilito nella Costituzione della Repubblica, di essere cioè veicoli di partecipazione democratica dei cittadini all’interno delle istituzioni non possono ridursi a federazioni pseudo-neutrali di frammenti identitari e le loro proposte a semplice comunicazione di tipo psicografico in sostituzione di una visione di tipo politico-ideologico generale.
Le tempeste emotive degli infiniti io dei social sono cosa assai diversa dalle istanze politiche. Averle assecondate acriticamente ha fatto esplodere il populismo e il rischio ora è quello di spianare la strada a capi-tribù, leader autoritari, da comando unico, i quali di fronte alla polverizzazione sociale e culturale non si preoccupano di ricomporre i pezzi e ricostruire l’identità comunitaria, ma assecondano i processi strumentalmente, lasciando che ognuno viva la sua identità, senza interferire, purché questo stabilizzi i consensi e possibilmente li incrementi. Una scelta miope e inefficace come stanno a dimostrare il fallimento dell’esperienza dei vari governi a trazione populista, l’incancrenirsi dei problemi, la crescente sfiducia dei cittadini che si manifesta con l’allargamento dell’astensionismo ad ogni passaggio elettorale e il conseguente effetto di una delegittimazione strisciante degli assetti civili.
C’è bisogno di leader veri e soprattutto di una politica normale, quella che sta nelle istituzioni democratiche disegnate dalla Costituzione Repubblicana, nel governo, nel Parlamento, nella maggioranza nell’opposizione e nei partiti, sale della democrazia, raccordo fra società e potere politico, espressione di interessi e valori legittimamente differenziati.
Serve una svolta di sistema. Se non verrà presto e si continuerà a lavorare al margine, senza costruire spazi di democrazia partecipata, dove la rabbia e il risentimento divengano conflitto e cambiamento, allora tornerà a spirare il vento potente dell’autoritarismo. Se una larga parte di cittadini continuerà a essere convinta che un futuro più giusto è una chimera, soprattutto alle fasce più deboli e vulnerabili, che non riescono a sfuggire alla contrazione dei diritti fondamentali, non resterà che rintanarsi in un identitarismo illusoriamente rassicurante, dove l’altro verrà percepito come nemico e dove almeno qualcuno comanda.