Tu voti il 25 settembre? E per chi voti?
Sono le domande più ricorrenti che attraversano una larga fetta dell’elettorato, soprattutto di sinistra. Prevale disorientamento e disillusione persino tra i militanti di lungo corso.
Si sente ripetere da più parti che questo passaggio elettorale è uno dei più importanti della storia repubblicana e i risultati ipotecheranno le scelte future del nostro Paese. Probabilmente è vero, ma in democrazia ogni chiamata alle urne è fondamentale, è in grado di imprimere svolte anche radicali al vivere comunitario.
La fine anticipata della legislatura, iniziata male e finita peggio, ha messo le destre in condizione di enorme vantaggio, perché si presentano unite, almeno apparentemente e nonostante un programma di governo obsoleto, inattuabile e scollegato dal contesto economico e sociale conseguente alla pandemia e alla crisi climatica ed energetica, acuita dalla guerra in Ucraina, ma soprattutto perché il centrosinistra si è dimostrato incapace di costruire una coalizione ampia fondata su una reale convergenza programmatica e di abbandonare inutili personalismi e ripicche personali.
La conseguenza è che una fetta di elettorato, profondamente insoddisfatto dell’offerta politica, soprattutto a sinistra, probabilmente non andrà alle urne, alimentando l’area dell’astensionismo che negli ultimi anni è venuto progressivamente assumendo dimensioni preoccupanti, un problema non solo italiano, ma che investe tutte le democrazie occidentali e quelle europee particolarmente.
La domanda, peggiore perché non retorica, è come è possibile che il campo della sinistra si sia ridotto ad un caravanserraglio tanto litigioso, in cui dominano logiche scriteriate e nessuno è disposto a far prevalere le ragioni del noi su quelle dell’io.
Occorre la lucidità e il coraggio di analizzare le situazioni e adottare le contromisure. Se la maggioranza dei cittadini non va a votare oppure vota la destra non è merito esclusivo della destra, quanto piuttosto dell’allentamento dei legami e in molti casi dell’abbandono del proprio popolo da parte dei partiti e movimenti democratici e progressisti. Operai, ceto medio, abitanti delle periferie avvertono come lontana dal proprio mondo, dai propri problemi e dalle proprie aspettative la proposta politica della sinistra.
L’affermazione può sembrare al limite del banale ma per tornare ad essere credibile, per raccogliere consensi e vincere le elezioni, la sinistra deve tornare a fare la sinistra, riconquistando il proprio popolo di riferimento e tenendoselo stretto, prendendo atto che, a trent’anni dall’ultima ondata liberista e dalla rivoluzione digitale, quello stesso popolo, e più in generale il mondo, è profondamente cambiato. Soprattutto poi quanto avvenuto negli ultimi due anni apre scenari fino a poco tempo fa inimmaginabili.
È ormai convinzione diffusa e condivisa che non possiamo combattere le pandemie, l’inflazione, il cambiamento climatico, la crisi sanitaria, rinchiudendoci all’interno dei confini nazionali, come propongono più o meno esplicitamente le destre, non possiamo fare a meno dell’Europa, giustamente sospettosa dei sovranisti nostrani sino a ieri alleati di Putin. Tutto vero, tutto sacrosanto ma non basta. Se la sinistra non riparte dai cittadini, se non rimette al centro l’idea di comunità, i diritti civili e sociali, il lavoro soprattutto, che negli ultimi decenni ha subito un processo inaccettabile di precarizzazione, una riduzione spaventosa delle tutele salariali e un sostanziale ritorno a forme di sfruttamento ottocentesco, non potrà sperare di strappare consensi alle destre e vincere le elezioni.
Se i ceti popolari si lasciano convincere dalle parole d’ordine della destra e si schierano da quella parte è perché sono orfani di riferimenti politici e culturali forti e credibili a sinistra, se si fanno irretire dalla retorica discriminatoria e razzista alimentata dalla contrapposizione egoistica “noi / loro” con il rischio di innescare una pericolosa guerra tra poveri e più poveri, italiani / immigrati, è perché non si sentono rappresentati e tutelati dalla sinistra e non vedono alcuna possibilità di riscatto al proprio orizzonte.
Serve insomma una sinistra che non sia solo ceto politico che si alimenta di se stesso e si compiace per la propria bravura, ma sia capace di una progettualità radicale nei valori e innovativa nei metodi, che rimetta al centro la partecipazione dei cittadini, che si faccia prossima, casa per casa, strada per strada, quartiere per quartiere, a quanti vivono situazioni di sofferenza sociale ed economica e combatta ogni tipo di discriminazione a partire da quelle di genere.
Servono idee chiare sulle priorità, senza scimmiottare modelli sperimentati in altri paesi e dimostratisi ampiamente fallimentari, senza fare della cosiddetta agenda Draghi una sorte di totem intangibile e il proprio esclusivo orizzonte politico e programmatico, in quanto costituisce un compromesso tra partiti tra loro assai distanti politicamente e sicuramente non è adeguata a costruire una società autenticamente solidale ed egualitaria.
Occorre proporre contenuti che sfidino lo status quo e costruiscano i necessari addentellati sociali e una idea credibile di avanzamento e di progresso.
In questa tornata elettorale la sinistra parte svantaggiata. Tutti i sondaggi danno ampiamente avanti le destre, ma in politica non esistono vincitori e vinti designati e preconfezionati. Il vero perdente è chi rinuncia a combattere. I voti vanno contesi e conquistati uno ad uno attraverso il confronto personale e diretto, non affidandosi unicamente ai social e ai mezzi di comunicazione.
In ogni caso, qualunque sarà il risultato elettorale, la sinistra ha davanti a sé il compito difficile di ricostruirsi su basi nuove e deve farlo in modo audace, osando per essere all’altezza delle sfide.