“Caro fratello, quanto vorrei spedirti questa lettera, ma purtroppo non mi è possibile. Posso solo scriverti, sperando che un giorno, in qualche modo, questo pezzo di carta straccia arrivi in mano tua e tu possa sapere che io sto bene. Quando arrivi qui, come prima cosa, ti spogliano. Ti portano via i vestiti, l’orologio, i documenti, le foto. Poi ti rasano i capelli, a zero. Li ammassano in grandi mucchi, così fanno anche per le scarpe, i giocattoli dei bambini. Ti privano di ogni cosa, ogni oggetto, seppur di poco valore, che abbia impresso qualcosa di quello che sei tu, o della persona che eri prima di entrare qui. Lo fanno perché chi è deportato in un campo di concentramento non può avere ricordi, anche il ricordo dei familiari viene schiacciato dall’esigenza di sopravvivere. Poi consegnano ad ognuno una specie di pigiama, una tuta a righe bianche e blu, che diventerà il tuo unico abito, e infine ti assegnano un numero. 16924, questo è il mio. Sembra impossibile quanta gente sia rinchiusa qua dentro.
Ci tengono stipati in molti nelle nostre celle, prigionieri. Usciamo solo per lavorare, lavoriamo fino a quando le gambe ci cedono e le braccia non si sollevano più. Stiamo in fila per delle ore solo per ricevere un po’ di brodo insipido con del pane vecchio ammollato, solo questo, una volta al giorno. Questo è il posto in cui quando conosci una persona non sai se il giorno dopo la rivedrai. Fiamme escono dai forni crematori. Fumo giorno e notte. L’odore è terribile, insopportabile. Le file di uomini che vi si dirigono interminabili. Bambini, giovani, anziani, tutti vanno a morire nello stesso posto, nello stesso modo. Milioni di storie di persone diverse diventano cenere, insieme ai loro corpi.
Ieri camminavo per strada, stavamo andando a lavorare e c’era un vecchio che spazzava il cortile. Un ragazzo del mio gruppo gli rivolse un saluto chiaramente nostalgico con gli occhi pieni d’amore, “doveva essere suo padre”, pensai. Il giorno dopo non c’era più, il ragazzo mi spiegò in lacrime che non aveva messo l’immondizia nel punto esatto ordinatogli da una SS. Per questo era stato massacrato, pestato a sangue, ucciso. Ora io mi chiedo: è questa umanità? È per questo che Dio ci ha messi al mondo? Per uccidere? Sterminare le genti che secondo alcuni sono diverse o considerate un “peso sociale”? No. O per lo meno voglio sperare che non sia così, fratello mio. Se questo è il vero disegno che Dio ha per noi, desidero morire subito, piuttosto che vivere in un mondo disumano. Sono ormai 4 mesi e 13 giorni che mi trovo ad Auschwitz, e sono vivo. Forse è solo fortuna oppure qualcuno lassù crede che io sia destinato a sopravvivere e a raccontare questo ai miei figli.
Qui, dove mi trovo, all’entrata c’è una scritta: “Arbeit macht frei” che in tedesco vuol dire “il lavoro rende liberi”. E’ la prima cosa che ho visto quando sono entrato qui e non mi rimane che aggrapparmi a questo, sperare di guadagnarmi la libertà, in qualche modo, lavorando sodo. A volte preferisco pensare che le persone che sono andate a morire è perché non si sono impegnate abbastanza, non hanno lavorato al massimo delle loro capacità. A volte raccontarsi delle piccole bugie aiuta ad andare avanti.
Non voglio lasciare che le fiamme brucino anche la mia Fede, voglio credere, e sperare, perché è tutto quello che mi rimane.
Non voglio lasciare che le fiamme brucino anche la mia Fede, voglio credere, e sperare, perché è tutto quello che mi rimane.
Spero che dovunque ti trovi, tu stia bene.
Ci rivedremo presto, ne sono sicuro.
Ti voglio bene.”
La lettera che Guido Bergamasco, 21 anni, studente ebreo, deportato ad Auschwitz nel 1942, scrisse al fratello nel campo di Auschwitz ci fa sprofondare nell’abisso più terribile, è un viaggio sconvolgente nell’orrore senza fine di crudeltà inaudite, ci fa misurare con un progetto di sterminio pianificato con cinica intelligenza ed efficienza e ci pone di fronte alla necessità di creare un legame con i testimoni di quanto accaduto per scongiurare il rischio della banalizzazione, dell’amnesia, del revisionismo, della negazione o anche, più semplicemente, dell’indifferenza.
Auschwitz è stato un crimine perpetrato con la partecipazione non solo di assassini ed esecutori diretti, ma anche di tanti persecutori e carnefici che non si opposero e anzi si resero complici, collaborando direttamente e indirettamente, con diversi livelli di responsabilità, alla deportazione di centinaia di migliaia di cittadini europei nei lager nazisti, del massacro di interi gruppi umani e del genocidio di sei milioni di ebrei. Giuristi, demografi, scienziati, intellettuali, uomini politici, insegnanti, impiegati dello Stato, industriali, uomini e donne comuni, né sadici né deviati moralmente, né instabili mentalmente né fanatici antisemiti, in gran parte non presero posizione, non fecero nulla per impedire o almeno contrastare le persecuzioni o non trovarono le motivazioni sufficienti o il coraggio per farlo. Soltanto una minoranza combatté il nazifascismo, si oppose alla deriva disumana delle leggi razziali e dei lager, mise a rischio la propria vita per salvare quella di altri esseri umani, riconoscendoli persone, titolari degli stessi diritti inalienabili.
Tuttavia non basta semplicemente ricordare, tanto più che tanti criminali di allora se ne sono andati senza saldare i conti con la giustizia, molte vittime ci hanno lasciato, alcune sconvolte dal loro trauma dopo averci aiutato a immaginare l’inimmaginabile, testimoni del buio che ha fagocitato le loro vite. Non basta semplicemente ricordare dato che altri genocidi ancora si consumano sotto i nostri occhi e la nostra attuale sordità e cecità è identica a quella che allora spianò la strada al nazifascismo. Lager, massacri, pulizia etnica ci ricordano che Auschwitz è vicino a noi, dentro di noi e non sempre la storia insegna a evitare il ripetersi di quanto è stato.
La Shoah sta lì a dimostrare che la storia siamo noi, che è necessario ricordare ma soprattutto fare, non solo informarci ma conoscere, vedere, lasciarci interpellare da una raffica di domande raccapriccianti, provare vergogna per una realtà che ci appartiene e dalla quale non siamo affatto immunizzati.