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Domenica, 23 Aprile 2023 06:34

Vivere è essere partigiani

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“Un fatto passato, per essere storia e non semplice segno grafico, documento materiale, strumento mnemonico, deve essere ripensato e in questo ripensamento si contemporaneizza, poiché la valutazione, l’ordine che si dà ai suoi elementi costitutivi dipendono necessariamente dalla coscienza «contemporanea» di chi fa la storia anche passata, di chi ripensa il fatto passato. (A. Gramsci, La barba di Croce, in,  Avanti!  Torinese, 5 febbraio 1918, in Id., Sotto la mole, Einaudi, Torino 1960, p. 365).
 
Il 25 aprile è un’emozione forte, è la memoria dell’orrore, è la festa della rinascita, è il parto della democrazia, è la gioia di respirare la libertà e archiviare definitivamente l’oppressione, il fascismo, la dittatura, l’odio, il razzismo, la discriminazione, la persecuzione, è la celebrazione della lotta partigiana in montagna con le armi, ma anche quella delle donne disarmate che mantenevano le famiglie dei partigiani, delle staffette partigiane, della resistenza civile degli intellettuali, di chi nascondeva gli ebrei, di chi aiutava i disertori della Repubblica di Salò, dei sacerdoti cattolici che sostenevano gli antifascisti perseguitati, dei partigiani nonviolenti che non hanno mai voluto imbracciare i fucili ma partecipavano agli atti di sabotaggio.
 
Celebrare il 25 aprile è prendere il testimone di chi è passato per le tragedie di questa nostra storia e ci ha affidato la Carta Costituzionale dove possiamo trovare le risposte per mantenere e rafforzare la democrazia e la pace.
 
Nel corso degli anni fiumi di parole sono state scritte e pronunciate per alimentare il ricordo di questo momento fondativo dell’Italia democratica, delle vicende di quanti combatterono e morirono per una causa non di pochi ma comune, per costruire una società in cui donne e uomini potessero guardarsi negli occhi con la certezza di avere dato tutto, anche per quanti quel tutto non se lo meritarono allora e continuano a non meritarselo oggi, per dare un senso diverso, più umano al futuro con l’impegno a non ripetere più gli errori del passato.
 
Tanti piccoli uomini, ancora oggi, animati solo dal gusto per le menzogne e paladini di idee vuote, osano denigrare il 25 aprile e la lotta partigiana, cercando di ridurla ad un derby tra fascisti e comunisti, dimostrando non solo di non conoscere la storia ma soprattutto di non essere degni delle libertà di cui godono, frutto del sacrificio di quanti, lasciati gli affetti, il lavoro e il caldo tepore delle proprie case, presero in mano le armi per combattere i fascisti e cacciare l’invasore nazista. I partigiani, gli unici che scelsero la parte giusta, consapevoli che vivere è essere partigiani, altrimenti è non vivere, appartenevano ad orientamenti politici, culturali e spirituali diversi. Socialisti, liberali, comunisti, cattolici, anarchici, monarchici e di tante altre convinzioni si opposero al fascismo, alla sua pochezza etica e culturale. Si scontrarono anche tra loro proprio in nome della pluralità delle idee, ma morirono tutti insieme per la libertà e la democrazia. Proprio in questa diversità risiede il valore della loro forza e la sostanziale differenza con i fascisti e il loro pensiero unico.
 
Il 25 aprile non è solo una ricorrenza, un giorno in cui far risuonare discorsi retorici e di circostanza, ma è la pietra angolare sulla quale è eretta la Repubblica. La libertà di cui tutti godiamo e che tutti invochiamo è germogliata dalla lotta di liberazione partigiana che qualcuno vorrebbe cancellare perché “divisiva” o comunque ridurla a fenomeno marginale. In effetti si tratta di una celebrazione divisiva e il punto di discrimine rimane intatto e passa tra quanti credono nella democrazia, nella giustizia, nella libertà di dissentire senza timore di essere perseguitati e uccisi dagli sgherri del regime, di difendere i più deboli e di promuovere i diritti e la dignità di ogni persona e quanti invece tutto questo lo hanno negato e continuano a negarlo, ricorrendo alla violenza, alla denigrazione e alla discriminazione, si proclamano nostalgici di 20 anni di nefandezze autoritarie fasciste e continuano a seminare falsità e distorcere la storia.
 
Il 25 aprile non è la festa di una fazione, non è questione di simpatie politiche o di ideali astratti, ma è il riscatto del nostro Paese dopo 20 anni di olio di ricino e di appiattimento culturale, nel quale si è dato finalmente voce alle donne che il fascismo voleva matriarche sforna figli e che i democratici volevano parte attiva della società, si è eliminata l’odiosa censura che sopprimeva ogni forma di legittimo dissenso.
 
Dobbiamo far rivivere in ogni istante i sentimenti, le lotte e le storie dei partigiani, dar loro un posto nella nostra memoria come faremmo se fossero nostri fratelli, nostre sorelle e nostri amici. Soltanto facendo diventare il ricordo nostro modo di essere e di pensare nell’oggi che viviamo, c’è la speranza di rendere giustizia a chi ebbe il coraggio di schierarsi quando fu necessario farlo. La gran parte di noi non ha vissuto la guerra e la Resistenza, ma non è necessario provare ogni cosa sulla propria pelle per comprenderne la gravità e l’importanza e dobbiamo acquistare sempre maggiore consapevolezza del nostro posto e dei propri doveri, ispirandoci a chi ebbe il coraggio di parteggiare per opporsi all’ingiustizia e si fece carico delle conseguenze che questa scelta avrebbe comportato. Quanti morirono davanti al plotone di esecuzione, negli scontri sulle montagne o in una stanza d’interrogatorio lo fecero per costruire il futuro e questo rimarca il profondo solco che divide antifascisti e fascisti.
 
La lotta di liberazione non può e non deve essere solo retaggio degli ultimi vecchi partigiani ma di ognuno di noi, dei giovani che scendono in piazza per l’ambiente, per il futuro loro e dei loro figli, dei lavoratori che lottano per il pieno riconoscimento dei propri diritti e per un salario dignitoso, delle donne che ancora oggi sono vittime di discriminazioni e violenze, di quanto sono emarginati e perseguitati a causa del proprio orientamento di genere, del proprio credo religioso e delle proprie convinzioni culturali.
 
Ogni volta che ci assale lo sconforto e crediamo che i pesi che portiamo sulle spalle siano insopportabili, dobbiamo pensare che nel 25 aprile risiedono tante risposte alle domande che oggi ci tormentano e dall’esperienza della lotta partigiana possiamo trarre la forza per sconfiggere i fascismi vecchi e nuovi.

 

“Un momento particolarmente emozionante ed intenso quello di stamattina, con la città che ha avuto il privilegio di ospitare un nutrito gruppo di persone impegnate nell’attraversamento della via Francigena del Sud”.  È con queste parole che Michela Capuccilli, vicesindaco e assessore alla Cultura del Comune di Sezze, ha aperto le porte della città al Gruppo dei Dodici, l’associazione che da anni organizza il pellegrinaggio lungo i tratti della via Francigena. Giunti a Sezze dalla lontana Brianza, tappa tra i 136 chilometri che percorreranno nel corso della settimana fino al 24 aprile, in 30 hanno attraversato Sezze e sono stati ospitati all’interno del Museo Archeologico da una rappresentanza del Comune con i quali si sono intrattenuti parlando delle bellezze del luogo e dell’importanza di promuovere questo genere di iniziative e accompagnati lungo le vie del centro storico con una sosta alla Concattedrale di Santa Maria. "Si è trattato di un incontro molto interessante e un primo piccolo passaggio rispetto a progetti più complessi che come amministrazione comunale abbiamo deciso di mettere in atto a tutela e salvaguardia del nostro territorio. Mi sento di ringraziare i partecipanti augurando loro tutto il meglio per il resto di questo importate pellegrinaggio e – ha concluso l’assessore Capuccilli – voglio ringraziare le guide Antonina Battisti e Emilia Leggeri e Alessio Fantigrossi e Fabrizio Paladinelli per la disponibilità”.

 

Con determina numero 12 del giorno 11 aprile 2023 l’amministratore della SPL SEZZE SPA, Antonio Ottaviani,  ha nominato l’organismo di vigilanza con funzioni di OIV (Organismo Indipendente di Valutazione). L’OIV è un soggetto nominato in ogni amministrazione pubblica dall’organo di indirizzo politico-amministrativo e monitora il funzionamento complessivo del sistema della valutazione, della trasparenza e integrità dei controlli interni ed elabora una relazione annuale sullo stato dello stesso, anche formulando proposte e raccomandazioni ai vertici amministrativi. La nomina in questo caso riguarda una singola persona (organismo monocratico) nella persona del prof. Giuseppe Russo.  L’incarico affidato riguarda il triennio 2023-2025 per un compenso annuo di 15.000 euro più oneri INPS.

Il consigliere comunale del Pd Sergio Di Raimo ieri ha inviato una Pec all’A. U. della partecipata del Comune di Sezze chiedendo di “conoscere quali sono le motivazioni e sulla base di quale indirizzo è stato deciso di passare da organo collegiale a organo monocratico” e “soprattutto sulla base di quale motivazione  e logica di economicità  - aggiunge l’ex sindaco - si è passati da una spesa complessiva annua di circa 7.000 euro dell’organo collegiale (3 persone) a una spesa raddoppiata di 15.000 più oneri INPS su un organo monocratico (una sola persona)”. Sempre la SPL recentemente è stata al centro di polemiche relative alla nomina di nuovi consulenti legali, una nuova figura manageriale e un addetto stampa. Il Pd di Sezze ne riparlerà in aula consiliare in una seduta ad hoc già richiesta. Nel frattempo, lo scontro tra l’ex sindaco Di Raimo e l’attuale sindaco Lucidi è rimbalzato sulle pagine dei social, con sostenitori e post da stadio.

 

 

Un fatto ignobile. Uno dei tanti petali di questo fiore marcito che è l’Italia. Fu condannato a undici anni, (nove in realtà) per un reato mai tirato in ballo fino ad allora. Il plagio. Per giunta ai danni di un maggiorenne… Tutto è plagio, che scoperta! Qualunque soggetto pensante e parlante è quotidianamente sottoposto a plagio. In seguito, sempre troppo tardi, questo reato fu cancellato dal codice penale. Contro Braibanti si scatenò la rappresaglia del sociale, la vendetta delle masse. Era l’intellettuale migliore che avesse l’Italia all’epoca. Aveva interessi pittorici, letterari, musicali. Profeta in anticipo di trent’anni. Fu uno dei primi a condannare il consumismo. I “diversi” allora in Italia si contavano. Lui, Pasolini, pochi altri” (Carmelo Bene).
 
Parole trancianti quelle di Carmelo Bene, attore, regista, drammaturgo, filosofo, scrittore e poeta, protagonista della neoavanguardia teatrale italiana e tra i fondatori del nuovo teatro italiano, con le quali ha provato a lasciare traccia di quanto accaduto a Roma ad Aldo Braibanti, la cui vicenda alla fine degli anni sessanta fece scalpore, ma su cui si cercò di spegnere rapidamente i riflettori in quanto così conveniva alla buona creanza ed ora abbiamo l’opportunità di riscoprire grazie al film Il signore delle formiche di Gianni Amelio.
 
Laureatosi in filosofia teoretica, partigiano e attivista antifascista, poeta, autore e regista teatrale ed anche mirmecologo, cioè studioso delle formiche, Aldo Braibanti, impersonato nel film da Luigi Lo Cascio, venne accusato di plagio e condannato a nove anni di carcere per aver sottomesso alla sua volontà, in senso fisico e psicologico, Ettore Sanfratello, interpretato da Leonardo Maltese, il quale ci regala una bellissima prova d’attore per la potenza espressiva con cui attraversa l’obiettivo della macchina da presa e per la forte empatia che instaura con gli spettatori, particolarmente nei momenti più duri e dolorosi come quando viene fatto rinchiudere in un ospedale psichiatrico e sottoposto a una serie di devastanti elettroshock perché guarisse da quell’influsso diabolico.
 
Il film prende spunto da fatti realmente accaduti e racconta una storia a più voci. Accanto alla figura dell’imputato prendono corpo famigliari e amici, accusatori e sostenitori e soprattutto emerge l’atteggiamento distratto e indifferente dell’opinione pubblica. Soltanto il giornalista Ennio, interpretato da Elio Germano, stoico, pugnace ed estremamente misurato in un ruolo che gli sembra cucito addosso, a cui il direttore dell’Unità affida il compito di seguire il processo, si impegna a ricostruire la verità, affrontando sospetti e censure. Un personaggio inventato, che ha il pregio di rendere l’intero racconto più coinvolgente anche sotto il profilo umano. 
 
La narrazione scorre fluida e riesce nell’impresa di ripercorrere una delle pagine più importanti e nascoste della storia recente dell’Italia. Il film inizia con Aldo Braibanti ed Ettore Sanfratello che dialogano sulla riva del Tevere utilizzando la poesia. È una sera apparentemente come tante, durante il Festival dell’Unità, al termine della quale ritornano nella pensione dove vivono da qualche tempo. La mattina presto però Ettore viene portato via con la forza e ricoverato in un ospedale psichiatrico per volere della famiglia. Partendo da qui Gianni Amelio ci porta indietro nel tempo, ci conduce in Emilia nella primavera del 1959, ci fa conoscere Braibanti, il suo modo di vivere, la sua idea di arte e soprattutto ci racconta l’incontro con Ettore. Il professore in una teca di vetro custodisce le formiche che osserva e studia. Ettore viene condotto nel laboratorio artistico del Torrione Farnese di Castell’Arquato dal fratello maggiore. Il giovane porta in regalo a Braibanti una regina madre e gli si rivolge con l’ingenuità di chi l’ha trovata per caso. Sarà proprio questa la scintilla che farà esplodere un legame intenso tra loro, tra maestro e allievo, una relazione intellettuale e sentimentale.
 
Gianni Amelio riesce nell’impresa delicata e difficile di bilanciare le scene legate a ciò che il professore comunica a quanti lo seguono nel suo cenacolo artistico con quelle dell’amore nascente per Ettore e con il processo, che costituisce un punto di cesura e segna la dissoluzione di un mondo. L’obiettivo del processo è annientare Braibanti, quanto rappresenta sotto il profilo umano e intellettuale, mediante la distruzione della sua dignità, la gogna pubblica e l’annichilimento morale. Il processo, un vergognoso unicum nella storia italiana, fondato su una norma fascista che anni dopo sarà dichiarata incostituzionale, doveva servire da monito a quanti in futuro avessero osato pensare di distaccarsi dall’ordine tradizionalista dominante.
 
Nel film colpiscono situazioni e immagini, come il volto della madre di Ettore, ora duro, incapace finanche di pronunciare il nome di Braibanti, tanto che lo chiama “quello lì”, ora amorevole come quando va a trovare il figlio in manicomio e come quello della madre del professore che trasuda una dolente tenerezza, così spingendoci ad interrogarci sul concetto di amore, rispetto al quale il film non esprime giudizi ma si limita a mostrarlo nella sua oggettività.
 
Il signore delle formiche è un film sulla violenza e sulla discriminazione, sull’amore assoggettato al conformismo e all’ipocrisia, ci fa immergere nello spaccato della provincia italiana degli anni sessanta, quando al benessere economico non seguì una apertura culturale, sociale e dei sentimenti. Nonostante i forti contrasti tra generazioni che caratterizzarono quegli anni, la famiglia continuò ad essere un luogo chiuso, refrattaria ai cambiamenti, ancorata ad una visione arcaica e persino violenta. In questa vicenda non è il plagio ma l’omosessualità mai nascosta di Braibanti ad essere messa sotto accusa. È indubbiamente angosciante e incredibile che, poco prima del 1968, le persone potessero essere processate, condannate e finire in prigione per l’omosessualità, considerata, e forse per molti è ancora così, alla stregua della follia da curare con l’elettrochoc.
 
A distanza di oltre cinquant’anni, anche se in apparenza non ci si scandalizza più di nulla, l’odissea di Braibanti e il processo che subì in seguito alla denuncia partita dalla famiglia retrograda del suo giovane compagno non si distaccano molto dal tritacarne mediatico cui continuano ad essere sottoposti tanti irregolari e diversi. Infatti dietro la facciata permissiva i pregiudizi esistono e resistono, generano odio e disprezzo.  
Domenica, 09 Aprile 2023 06:53

Pasqua, dinamismo trasformante

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Il racconto della Pasqua dei Vangeli possiede un ritmo incalzante, inizia il mattino presto ed è tutto un correre affannoso.
 
Nel Vangelo di Giovanni Maria di Magdala si reca al primo albeggiare al sepolcro. In questo suo andare c’è un’urgenza, un’impossibilità di attendere, il desiderio profondo di prendersi cura del corpo di Gesù. Porta con sé aromi ed unguenti, ma lì giunta ne constata l’inutilità dal momento che la tomba è vuota. In preda allo smarrimento abbandona tutto e corre da Pietro e da Giovanni. Vuole condividere con loro quella realtà inaspettata che non riesce a comprendere. È sufficiente il racconto confuso di Maria di Magdala per spingere Pietro e Giovanni a mettere da parte ogni esitazione e timore e a correre verso il sepolcro. Mille pensieri e mille domande rimbalzano nella loro testa, ma corrono e non hanno tempo di fermarsi a riflettere. A spingerli è l’ansia di vedere, di riscontrare personalmente quanto loro raccontato, di capire e anche di verificare se la promessa della resurrezione fatta da Gesù si è avverata o se si sono illusi e hanno creduto ad una parola vana.
 
Nel Vangelo di Luca le donne, mentre la notte si dirada e spuntano le prime luci dell’alba, si recano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù. Qui vivono un’esperienza sconvolgente: la tomba è vuota. Due figure in vesti sfolgoranti dicono loro che Gesù è risorto. Subito corrono ad annunciare la notizia agli altri discepoli.
 
I giorni precedenti erano stati duri e sconvolgenti. Tutto era precipitato rapidamente e inaspettatamente. Invero Gesù aveva annunciato varie volte la sua imminente fine, ma nessuno di loro aveva creduto che sarebbe accaduto realmente. La morte sulla croce del Maestro e quel grosso masso rotolato davanti al sepolcro sembravano il suggello definitivo di un fallimento.
 
L’annuncio della tomba vuota da parte di Maria di Magdala e delle donne aumenta dubbi e paure e fa subito riaffiorare alla memoria le voci tendenziose messe in giro dai sommi sacerdoti, dai farisei e dai capi del popolo, fin dal momento in cui Gesù era stato tolto dalla croce e riposto nel sepolcro, circa la possibilità che i discepoli avrebbero potuto rubare il suo corpo per ingannare il popolo e far credere che fosse risorto. Anzi non hanno perso tempo e già lo vanno ripetendo in giro: “I suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato” (Mt 28), sebbene la tomba fosse presidiata dai soldati del Tempio.
 
Quanto accaduto rischia di sconvolgere ancor di più i discepoli, non sanno cosa pensare e il loro cuore è pesante come un macigno. In questo momento davanti a loro vedono solo ostacoli da superare, significati da scoprire, relazioni da rammendare e soprattutto un futuro buio, impenetrabile e indecifrabile con cui fare i conti. Troppo, veramente troppo per poter affermare: “È risorto”. Umanamente come dar loro torto?
 
Tuttavia il dinamismo che caratterizza i vari personaggi è singolare, racconta qualcosa di altro e di importante. Correre per andare da un morto non ha senso e perciò a spingerli è la percezione di qualcosa di incomprensibile e di immenso: c’è una notizia che non può aspettare, che merita l’urgenza di essere verificata, di fronte alla quale comunque si sentono inadeguati e in ritardo. In loro probabilmente non è ancora germogliata la fede, ma certo è sbocciata la speranza, animata da un’ansia illogica e irrazionale di capire e vedere. La speranza è tendere a qualcosa di essenziale e significante, è fare spazio ad un seme, custodirlo e curarlo affinché germogli, è avere l’atteggiamento dell’esploratore che riesce a cogliere l’inedito anche nell’ordinarietà, è avere occhi per vedere oltre il visibile, è avere la libertà di affrancarsi dai condizionamenti, dalle catene del conformismo e delle mode, dalla mentalità corrente e dagli ergastoli interiori, è passare dalla sterilità alla fecondità, dalla solitudine alla condivisione, è capire che la novità non è nelle cose che accadono ma nel vederle con occhi nuovi, è entrare nelle vene della storia alla ricerca del senso del vivere o meglio di Colui che è il senso ultimo di ogni cosa e della nostra esistenza, il quale è precipitato per amore dentro le nostre contraddizioni, i nostri tradimenti e abbandoni. Dio è entrato dentro la nostra umanità, si è caricato il peso insopportabile della Croce e cammina con noi, ci aiuta a portare le nostre croci, ci incoraggia ad andare avanti, facendo sue le nostre fatiche e i nostri dolori.
 
All’alba di quel primo giorno della settimana le donne, Maria di Magdala, Pietro e Giovanni, tutti coloro che vanno al sepolcro constatano che è vuoto. Luca scrive che le donne sono perplesse, in una condizione di sospensione, in attesa dell’accadere di qualcosa, di una rivelazione, di qualcuno che consenta loro di capire l’umanamente incomprensibile. Hanno visto Gesù morto, il suo cadavere deposto nel sepolcro ed ora non c’è più. C’è un’aporia esistenziale nella comunità dei discepoli, diversa probabilmente per ciascuno di loro, che non viene superata mediante una riflessione individuale o comunitaria, fondata sulla sequela, sugli insegnamenti ricevuti in quegli anni e su quella stessa morte che li porta a concludere che l’opera di Gesù non poteva finire così e doveva continuare, insomma un processo intellettuale o una elaborazione interiore. È una Parola venuta da altrove, che non è nell’uomo, non può venire da carne e sangue ma solo da Dio, ad aprire i loro occhi e il loro cuore, a farli entrare nella dimensione della fede. Due uomini di luce si presentano alle donne impietrite davanti al sepolcro, Gesù appare a Maria di Magdala, la quale pensa sia il giardiniere, ai due discepoli in viaggio verso Emmaus nelle vesti di un viandante, e poi ai discepoli come uno sconosciuto sulla riva del lago che dà loro da mangiare e riuniti nel Cenacolo, i quali in un primo momento lo credono un fantasma.
 
È Dio che alza il velo, ma per accogliere il suo rivelarsi e credere nella resurrezione occorre farsi coinvolgere nella vita di Gesù, ascoltare i suoi insegnamenti, conoscere e sperimentare il suo amore fino ad amare e soprattutto accogliere la Parola.

 

 “I Custodi del Tempo “ritornano con un nuovo viaggio raccontando il Campo di Aviazione Setino. Il nuovo documentario di Flavio Cammerano “I Custodi del Tempo Inseguendo il Sogno di Icaro” racconta un pezzo di storia che pochi conoscono ma che ebbe una grande importanza negli anni 20 e che dopo la guerra scomparve senza che ormai vi sia più alcuna traccia tangibile. Flavio Cammerano come già nel precedente docufilm “I Custodi del Tempo Dalla Palude al Novantesimo,  in occasione del Centenario dell’Arma Azzurra, ha voluto dedicare questo documentario raccontando di una realtà in ambito Aeronautico esistita quasi 100 anni fa. Cammerano consegna alla città un altro documentario da lui scritto ideato diretto e prodotto con una mini troupe pontina composta da Tamara Garolla, Kevin Cervoni Reiter, Mario Valle, Maurizio Luffarelli, nel ruolo di intervistatrice Ilaria Barbiero e la studentessa Elisa Cervelloni in viaggio in bicicletta. 

Il Documentario è stato già presentato al MUG di Latina il 2 Aprile insieme ad una bellissima mostra statica di aeromodelli, dell’associazione aeromodellistica ASD Gruppo Volo RC Fenic. Il documentario si snoda come il precedente sempre su tre livelli di narrazione : il protagonista in assoluto è il campo di aviazione che osserva dall’alto i suoi custodi del tempo che ne conservano ancora la memoria : il Sindaco di Sezze Lidano Lucidi, il prof. Neurochirurgo Stefano Savino, il Gen. (r) Euro Rossi autore del libro Nido D’aquile, l’istruttore e Campione di Volo a Vela Pietro Filippini, e Iwan Piccioni primo pilota Paraplegico d’Abruzzo col brevetto di pilota acrobatico di Aliante. Dopo la presentazione alla città anche questo documentario andrà sulla piattaforma dove già si trova il precedente docufilm ,PRIME VIDEO USA ,UK ,DE , in attesa che presto possa essere disponibile anche in Italia per coloro che non hanno visto ne il primo ne il secondo.

La Conferenza stampa di presentazione si terrà il giorno 22/04/2023 alle ore 11 presso il museo archeologico a Sezze, mentre la proiezione Documentario il giorno 06/05/2023 ore 17.30 presso l'auditorium San Michele Arcangelo a Sezze.

 

Non poteva mancare, nel modo più assoluto, il falò per la Madonna del Venerdì Santo. I residenti del quartiere Santa Maria di Sezze hanno voluto mantenere viva la fiamma della tradizione e per questa sera, al passaggio della Madonna, accompagnata dal coro Stabat Mater, in apertura della Passione di Cristo, accenderanno il fuoco in piazza del Duomo come ringraziamento e simbolo di purezza e rinascita. Le fiamme che purificano e che scaldano il cuore dei fedeli, il fuoco che unisce una comunità e che lega fortemente al passato, alla storia. Il comitato spontaneo Santa Maria – Aringo – Vaccareccia, come da tradizione, ha fatto così la “colletta” per comprare fascine e tutto l'occorrente, e per questa sera è tutto pronto. Fausto Quadrano (Pinzi Pinzi) porta avanti questa antica tradizione da anni, ereditata da altri residenti del luogo. Piccole iniziative ma significative e ricche di memoria e di importanza storica per la nostra comunità.

 

 

 

 

Venerdì 7 aprile si svolgerà la “Sacra Rappresentazione della Passione di Cristo” nella forma tradizionale, con conseguente partecipazione di numerose persone ed autorità. Nel rispetto della tradizione la “processione” si snoderà per le vie del centro storico e del centro di Sezze. Il Comandante della Polizia Locale Lidano Caldarozzi ha ritenuto necessario disciplinare la sosta e la circolazione stradale, onde consentire la buona riuscita della manifestazione. Ecco tutti i divieti di sosta e gli orari predisposti per la Sacra Rappresentazione di Cristo di Sezze.

 

  • dalle ore 10.00 del 06.04.2023 e fino al termine della manifestazione il divieto di sosta con rimozione forzata nel p.le Anfiteatro nell’area adiacente il terreno scosceso, da destinare ad area di sosta per pulmini caravan e roulotte;
  • A partire dalle ore 16.00 del 07.04.2023 e fino al termine della manifestazione tutti gli utenti della strada dovranno osservare, nelle località e nei tratti di strada come appresso indicati, le seguenti norme di Polizia Stradale: dalle ore 16.00 e fino al termine della manifestazione è vietato il transito nelle seguenti Vie e Piazze: Piazza Margherita, Piazza De Magistris, Via Diaz, Piazza IV Novembre, Via Roma, Via Matteotti, Via Corradini, Porta Pascibella, Via Marconi, Via San Carlo e in tutto il centro storico.
  • Dalle ore 16.00 e fino al termine della manifestazione è vietata la sosta, con rimozione forzata nelle seguenti Vie e Piazze: Piazza Margherita, Piazza De Magistris, Via Diaz, Piazza XX Settembre, Largo Buozzi, Piazza IV Novembre, Via Roma, Via Matteotti, P.zza Duomo, Via Corradini, Porta Pascibella, Via Marconi, Via San Leonardo, Via Cappuccini, Porta Sant’Andrea, Via San Carlo, Via Fanfara e lato destro di Via Mattatoio direzione Via Fanfara a partire da Porta Romana.
  • Dalle ore 18.00 e fino al termine della manifestazione in Via Piagge Marine è vietato il transito ai veicoli provenienti da Via Colli; Via San Bartolomeo e Villa Petrara. Le stesse saranno percorribili a senso unico a partire da Via Marconi;
  • Dalle ore 19.00 e fino al termine della manifestazione è vietato l’accesso in Via Mattatoio ai veicoli provenienti dalla S.P. Ninfina;
  • Il transito dei pullman di linea lungo Via Fanfara e Via Variante, è consentito fino alle ore 20.00.

 

 

Una rappresentazione della Passione che ritorna alle origini in occasione dei novanta anni dell’Associazione che la realizza. La Passione di Cristo di Sezze rivive con ancora maggiore suggestione nelle strade del centro storico del paese, la sera di Venerdì Santo 7 aprile. Il grande evento che caratterizza la tradizione e la cultura di Sezze, noto a livello nazionale e internazionale, si riproporrà in una veste molto tradizionale, che rievoca nei costumi e nei quadri presentati la rappresentazione dei primi anni. Un omaggio che l’Associazione della Passione di Cristo di Sezze ha voluto fare alle migliaia di cittadini, attori e figuranti e dirigenti del sodalizio che hanno saputo, in novanta anni, tramandare una straordinaria tradizione culturale. La processione sarà composta da 38 scene, con centinaia di attori e figuranti.     

 

Il presidente dell’associazione della passione di Cristo di Sezze, Elio Magagnoli, così presenta l’evento:  

“La Rappresentazione di Sezze, per i suoi contenuti artistici e di partecipazione emotiva da parte degli attori e del pubblico, si pone come una delle massime espressioni del genere a livello italiano ed europeo e questo è stato possibile grazie al contributo e partecipazione della gente di Sezze. Il Venerdì Santo di quest’anno apre le celebrazioni per la fondazione della nostra associazione, che dal 1933 porta in scena nelle strade di Sezze questo evento che ha radici nel medioevo e fa parte della storia stessa dei cittadini di Sezze, del Lazio e dell’Italia. Abbiamo così deciso di realizzare una rappresentazione molto legata alle origini, che rievocasse una Sezze antica, tanto da non prevedere neppure la trasmissione dell’evento in diretta televisiva. Ringrazio le istituzioni e le forze dell’ordine, sempre disponibili alla massima collaborazione, e il Comune di Sezze che ci consentono di poter riproporre l’evento il Venerdì Santo lungo le strade cittadine.”     

 
La regia e direzione artistica della Rappresentazione sono curate da Piero Formicuccia: “Per non disperdere i motivi salienti che nel 1933 ispirarono il fondatore Filiberto Gigli e i suoi tanti collaboratori che all’epoca ebbero l’intuito di celebrare, attraverso una rievocazione in forma di spettacolo, uno dei momenti più significativi della storia del cristianesimo – afferma Formicuccia - il programma di questa edizione prenderà spunti utili dai copioni propri di quegli anni. Un segno concreto di riconoscenza verso quella moltitudine di cittadini che in questi lunghi anni si sono succeduti ed impegnati per dare vita e non disperdere questa illustre tradizione che ha fatto conoscere ed apprezzare Sezze in tutto il mondo. E’ un omaggio significativo, soprattutto per quelli che oggi ci hanno lasciato e per i tanti che per limiti di età oggi non sono più in grado, loro malgrado, di vestire i panni della tradizione. Per riaffermare tale principio, e celebrare i 90 anni di fondazione l’associazione sta preparando un programma di eventi, incidendo anche in modo significativo nella messa in scena della Sacra Rappresentazione del Venerdì Santo, riallestendo dei quadri artistici che hanno l’intento di ricordare il valore espressivo di quella vivace e potente ispirazione che di sé permea la “Passione di Cristo di Sezze”. I soldati romani che partecipano con il loro peculiare marcato carattere di quei soldati che costituiscono nel corso della storia umana il prototipo della forza militare consapevole e inflessibile. Le loro armature, riproduzione autentica e fedele dell’antico equipaggiamento, come i loro modi e comportamenti. La casta degli Esseni, il pianto delle pie donne, un pianto cantato che ha in sé una eco di dolore antico ed eterno, ingenuo e semplice e il lamentoso canto degli spiriti angelici, rappresentano artisticamente l’espressione musicale che nei primi anni venne diretta dai maestri Perosi e Refice. Il quadro degli scheletri che rappresenta il tormento della morte vinta dal Signore della Vita, il lento vagolare di ombre sul limite della Luce. La deposizione e il singhiozzo delle Marie”.

 

 

Ormai il PD è un partito schizofrenico...” .
 
Parole buttate lì con distaccata indifferenza, disinvolta noncuranza, ostentato disinteresse nell’ambito di una polemica tutta locale e in apparenza non così rilevante. Eppure le parole ci rappresentano, raccontano di noi, della nostra sensibilità, cultura e carattere, sono un veicolo per esprimere i nostri pensieri e hanno conseguenze allo stesso modo delle azioni. Tutti dovremmo fare attenzione alle parole, soprattutto coloro che hanno responsabilità sociali, politiche e amministrative, un ruolo di educazione, guida e rappresentanza dei cittadini. L’esempio personale vale più di migliaia di discorsi, circolari, atti amministrativi e deliberazioni.
 
Il confronto politico può essere aspro, duro, senza esclusione di colpi, ma utilizzare un linguaggio corretto e rispettoso è fondamentale in ogni contesto e occasione, in particolare quando si fa riferimento alle condizioni dei più fragili, di quanti vivono una situazione di disabilità o malattia. Non è una questione linguistica, è sostanza, è cultura, è mentalità radicata e che si radica.
 
La lotta contro le discriminazioni e lo stigma sociale portata avanti da quanti vivono il disagio di una malattia invalidante o di una disabilità e dalle loro famiglie, per cambiare il mondo che le circonda e farsi spazio nella società, è lungi dall’approdare a risultati solidi e incontrastati e il rischio della regressione è forte. 
 
In questi anni tanto è cambiato, la società si è evoluta e con lei la cultura. Nel mondo del lavoro, per esempio, si sta imparando che una persona disabile può portare un valore aggiunto nell’azienda e assumerla non è solo un atto di generosità nei confronti di una categoria fragile. Sicuramente c’è un’accoglienza diversa di queste persone ed è un segnale importantissimo culturale ancor prima che sociale.
 
Il linguaggio è l’alfabeto di questa cultura in evoluzione e per questo sdoganare determinati termini e farne uso in maniera sconsiderata non è affatto indifferente, significa rischiare di fare un passo indietro di decenni.
 
Usare le parole della disabilità e della malattia per offendere è una inaccettabile abitudine, ma quel che è peggio è che da alcuni è considerato un modo di dire e ne viene sminuita la gravità. Per quanto l’abitudine faccia dimenticare il significato originario di alcune parole o si cerchi di giustificarne l’uso facendo riferimento al contesto del discorso all’interno del quale sono pronunciate, si tratta di termini offensivi e discriminatori nei confronti della categoria di persone cui si riferiscono e usarli alimenta la cultura del pregiudizio e della discriminazione. Probabilmente per alcuni quest’ultimo aspetto è la parte più difficile da comprendere, ma la questione è importante perché inquina la nostra società senza che nemmeno ce ne accorgiamo.
 
Se sanzionare gli episodi di razzismo, sessismo e blasfemia è fuori discussione, lo è altrettanto non considerare sciocchezze o errori di poco conto i veri e propri insulti che offendono le persone attraverso l’uso dei termini della disabilità e della malattia. Schizofrenico, mongoloide, autistico, handicappato, cerebroleso sono termini discriminatori e offensivi tanto quanto negro, ebreo o zingaro.
 
Non è questione di politically correct, di formalismi, ma di sostanza.
 
Le parole sono rilevanti, per questo è fondamentale non usare espressioni linguistiche discriminanti, consapevoli che il linguaggio ha un potere trasformativo. Ricorrere alla disabilità e alla malattia mentale come metafora negativa per colpire gli altri perpetua l’idea che le persone che ne sono affette siano inferiori, contribuisce a costruirne un’immagine stereotipata e distorta e soprattutto le riduce alla propria situazione, che diviene così uno status totalizzante, essenzialistico, che annulla tutto il resto.
 
Il primo passo da compiere è prendere consapevolezza che non tutte le persone sono abili, ma ne esistono con disabilità, una condizione né negativa né positiva in sé e che con il nostro linguaggio possiamo contribuire ad accrescere la loro marginalizzazione o a farle uscire da quella percezione di inferiorità e discriminazione.
 
In generale impiegare certe espressioni certo ormai fa parte di automatismi linguistici ad uso comune, ma la consapevolezza di cosa rappresentano realmente deve farci comprendere che è necessario dismetterle completamente, spingersi ad impegnarci affinché anche gli altri le cancellino dal proprio vocabolario, specialmente quanti si intestardiscono ad usarle per ignoranza nei confronti di determinate condizioni o per ingiustificabile e imperdonabile leggerezza.
 
Nessuno vuole censurare il linguaggio e certamente conta il contesto, la confidenza che si ha con la persona cui ci si rivolge, la pubblicità o meno della discussione, la conoscenza che si ha dell’altro e dei suoi traumi, ma questo non elimina la sconvenienza, l’offensività e l’inopportunità di alcune parole.
 
Quanti ricoprono incarichi istituzionali e funzioni pubbliche dovrebbero avere sempre piena contezza del proprio ruolo, mantenere un profilo alto, non abbandonarsi alle offese anche quando si ritiene di essere stati attaccati duramente sul piano personale e soprattutto determinati termini non dovrebbero essere usati strumentalmente per rafforzare le proprie posizioni, per rappresentarsi come i migliori, per cercare di convincere della bontà delle proprie opinioni a costo di far sentire gli altri inferiori.
 
Quando parliamo di violenza all’interno delle relazioni e nella società il pensiero automaticamente si orienta verso l’aggressione fisica o sessuale. Eppure la violenza si presenta in molte forme, alcune non visibili come le offese, le accuse immotivate, la denigrazione, la mancanza di rispetto, la svalutazione, la menzogna, i ricatti, il tentativo di limitare la libertà personale e impedire di esprimere il proprio pensiero in nome di una presunta superiorità etica, culturale e politica.
 
Le idee si possono discutere, le persone si devono rispettare e quanti sostengono opinioni diverse non sono un nemico da offendere o eliminare.
 
È una questione di umanità e di buon senso, prima ancora che di democrazia.
 
P.S.: Sono attese reazioni scomposte da parte dei soliti leoni da tastiera...
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