“Luigi De Angelis ha colto la pienezza della realtà divina nascosta nelle Parabole, rendendo, attraverso tali racconti, la realtà celeste più vicina alla terra, suggerendo la vera modalità di fede a cui l’uomo è chiamato: la preghiera. Sì, la vera risposta dell’uomo alla cura paziente di Dio e alla presenza reale della Sua Grazia feconda, è l’atteggiamento di ringraziamento, apertura, accoglienza, anelito, preghiera, appunto, che rende noi creature riposanti sulla mano grande del Creatore, che ama ancora ricrearci, ogni giorno”. Padre Ugo Vanni conclude così la prefazione al quarto libro scritto dal setino Luigi De Angelis “Il Regno di Dio: pienezza che si dispiega. Meditare e pregare le parabole del Regno”, edito nel settembre scorso da Porto Seguro, casa editrice fiorentina. L’autore, avvocato di professione, nella sua ultima fatica letteraria, attraverso le parabole, ripercorre “lo svelamento del volto di Dio in Gesù” dando la possibilità al lettore “di poter vivere collaborando al dispiegarsi del Regno di Dio”. E' lo stesso De Angelis, nella sua introduzione, che ci indica il cammino di lettura, un cammino fatto di amore e passione: “Le parabole sono racconti metaforici, il cui significato scaturisce dall’accostamento paradossale di due orizzonti diversi, dalla messa in relazione di un fatto preso dalla vita quotidiana, appartenente alla specificità delle persone o facente parte degli eventi naturali, con l’accadere del Regno. Nell’esposizione Gesù non segue schemi predefiniti, ma è mosso dalla passione smisurata per il Padre, dall’amore inesauribile per l’umanità, dal bisogno urgente di rivelarci il volto dell’Onnipotente, di associarci al mistero del Regno che in lui e attraverso di lui si svela e si compie. Il linguaggio simbolico utilizzato è fortemente intrinseco alla sua persona, al suo essere consustanziale con Dio, attento al contesto particolare, allo stato d’animo e alla condizione personale di quanti l’ascoltano, di ognuno di noi, rispetta con condiscendenza e tenerezza la nostra autonomia e si adegua al nostro passo, alla nostra fatica a capire”. Il libro verrà presentato quando le condizioni lo permetteranno.
Il potere delle parole e le parole della politica
Scritto da Luigi De Angelis
“La demagogia è la capacità di vestire le idee minori con parole maggiori” (Abraham Lincoln).
“Sei il presidente, non sei lo zio pazzo di qualcuno che ritwitta qualunque cosa” (Savannah Guthrie, giornalista del Nbc, intervista a Donald Trump).
La parola è uno strumento straordinario, descrive e ci descrive, racconta il mondo, il nostro vissuto, svela la nostra identità fin negli aspetti più intimi. La nostra umanità si esplicita pienamente nel relazionarci con l’altro da noi mediante la parola, capace di unire e consolare, liberare e umanizzare ma anche, se pronunciata da demagoghi e corrotti, di dividere e calunniare, deridere e ingannare. Il dialogo è scritto nella nostra essenza e nel nostro destino. Il nostro essere ha senso e si definisce nell’incessante misurarci all’interno di una comunità plurale, fatta di sensibilità individuali, ideali, religiose e culturali differenti e perfino antitetiche. La parola è intermediaria della conoscenza, che non è un monolite inerte, un apparato sclerotizzato, un passato depositato alle nostre spalle e inutile, ma una luce che illumina e rende possibile quanto ancora deve accadere. Tuttavia viviamo il tempo della parola svuotata di significati e contenuti, del suo retroterra di esperienze personali e collettive, e trasformata in affabulazione, in mezzo per creare miti, per distorcere la realtà, deviarne la percezione, far credere l’inverosimile e l’inesistente. Al ragionamento e all’approfondimento, che postulano sforzo cognitivo e impegno temporale, è preferita la parola scambiata con leggerezza e superficialità, attraente, che piace, suggestiona e persuade: è ininfluente capire cosa intenda, il senso delle affermazioni, se propone o meno verità riscontrabili. Il destinatario non deve porsi o porre domande, ma solo fidarsi. La narrazione è costruita in modo da far vibrare le corde emotive, suscitare reazioni epidermiche di adesione o rigetto e non deve stimolare studio e ricerca. L’esclusione del pensiero critico impedisce la partecipazione vera, ci riduce a semplici percettori di messaggi preconfezionati, di contenuti semplificati e notizie in apparenza verosimili e di buon senso, provenienti da uno solo o direttamente abile manovratore o referente di macchine comunicative affinate e pervasive, rispetto a cui possiamo esprimere un’adesione e mai pareri motivati conseguenti ad un confronto aperto e libero. Pareri che se anche avanzati comunque non sono considerati, non influenzano quanto presentato. È il meccanismo dei social, nei quali il messaggio è semplificato fin nel vocabolario, ridotto a espressioni ricorrenti, predefinite, spesso banali, che di contro a dissenzienti e latori di un pensiero alternativo riservano insulti, violenza verbale e gogna mediatica.
La politica si è appropriata di questa modalità di espressione comunicativa, dell’uso svuotato della parola per veicolare idee e coagulare consensi, solleticando emotività e istinti e omettendo una progettualità ragionata e commisurata alla complessità della realtà che vorrebbe governare. La manipolazione della comunicazione e piuttosto frequentemente ormai il ricorso alle notizie false da parte della politica è pericolosa, perché attraverso parole ambigue, ingannevoli e travisanti può provocare mutamenti profondi nel tessuto sociale e culturale, influenzare e modellare pensiero e sentire collettivo, indirizzare scelte e condotte, condizionare l’interazione tra i gruppi sociali e con le minoranze culturali, religiose o di genere, e incidere di rimando sulle dinamiche di formazione del consenso. Nella propaganda politica nulla è casuale, tutto è pianificato, studiato e testato prima di essere lanciato in rete, strumento principe per arrivare alle persone. I destinatari sono i più manipolabili, quanti cioè si lasciano facilmente suggestionare e sono pronti a rilanciarne gli slogan acriticamente, a farsi veicolo di pensieri e immagini che eccitano le masse, proiettano descrizioni alterate e distraenti della realtà, innescando conflittualità artificiose come quando un episodio anche significativo è trasformato in un assoluto, un emblema, una asserzione martellante, ingenerando tensioni e allarme e provocando reazioni sproporzionate e ingiustificate per trarne benefici elettorali. Abilità retorica e violenza verbale, unite a gestualità studiate, teatralità di espressione comunicativa per coprire la carenza di contenuti, modulazione della voce, pause ad effetto, frasi enfatizzate e rimarcate, ipnotizzano le persone, aizzano risentimenti e ostilità verso nemici creati ad arte, il diverso in genere, nei cui confronti scaricare frustrazioni e rabbia sociale.
I politici appaiono oggi abbastanza omologati e indistinguibili, ripetono stereotipi a scapito di idee forti, palesano incapacità ad affrontare e sostenere un dialogo fondato sul ragionamento e non su arroganza e prevaricazione. Il dibattito politico è un parlare senza ascoltare, un discutere senza capire le ragioni altrui. Le parole non servono a confrontarsi, a smussare gli angoli, a colmare le distanze e superare le differenze, ma sono clave brandite in modo intimidatorio, per colpire e demolire l’avversario cui spesso non è riconosciuto neppure il diritto di esistere, manifestano l’indisponibilità a mettersi in discussione, a verificare le proprie certezze, a cogliere spunti di riflessione e proposte meritevoli dinanzi all’argomentare altrui. Criticare, avanzare dubbi diventa allora una intollerabile lesa maestà.
Occorre recuperare l’onestà intellettuale, la dimensione etica, la dirittura morale, il fondare il proprio agire e le proprie proposte su convincimenti che nascono e si radicano nella coscienza e non sono la risultante di opportunismo elettorale. Solo il pensiero libero può spazzare la mala politica, coinvolgendo e persuadendo per se stesso e non per gli artifici retorici. Serve una politica intelligente, garbata nei toni e fondata sulle buone idee, immersa nel vissuto delle persone, che usa le parole non che devono essere pronunciate per convenienza ma che è giusto pronunciare, legate a ragione e sentimenti, capaci di costruire ponti, di farsi occasione di incontro per realizzare il bene comune.
Lunedì 2 novembre il plesso della Scuola secondaria di 1° grado in Via San Bartolomeo si Sezze, resterà chiuso per sanificazione. Le attività didattiche sono sospese e riprenderanno regolarmente martedì 3 novembre. La dirigente scolastica dell’Istituto comprensivo Pacifici Sezze-Bassiano comunica così la chiusura dei locali. Si tratta, ovviamente, di una procedura richiesta dalla Asl per i diversi casi covid presenti anche a Sezze. La Ds Fiorella De Rossi, sul suo profilo social, si lascia anche ad un sfogo e invita tutti a collaborare in un momento molto delicato e di difficoltà per tutti. “In poco più di un mese – si legge nel profilo pubblico della Preside - già due interventi di sanificazione, 5 classi e 12 operatori in quarantena, organico docenti che va e che viene, difficoltà a gestire un orario completo per la scuola secondaria. Non è la Scuola che mi piace, ovvio, ma questo è. In quanto ai contagi in forte risalita... che dire? Ormai nulla. Sono mesi che si spendono parole. E' ora di fare silenzio e di fare, tutti, il nostro dovere”.
La Giunta comunale di Sezze, presieduta dal sindaco Sergio Di Raimo, ha affidato al Avv. Bianchi Domenico, l’incarico di rappresentare e difendere il buon diritto del Comune di Sezze nel giudizio “de quo” ed in ogni successiva fase esecutiva dello stesso relativamente al ricorso dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio presentato dal Direttore dell'Archivio Capitolare della Cattedrale e del Museo Diocesano d'Arte Sacra di Sezze, Don Massimiliano Di Pastina. Nel ricorso al Tar il Don, committente dei lavori per la realizzazione del monumento di San Lidano al Belvedere di Santa Maria, chiede l’annullamento dell’Ordinanza di demolizione delle opere abusive, dell’invito al ripristino dello stato dei luoghi, della diffida alla demolizione e dell’Ordinanza di sospensione dei lavori. Il sacerdote chiede, inoltre, un risarcimento di tutti i danni subiti e quantificati in €30.872,00. La storia insomma continua, e tra carte e atti lo spazio del belvedere resta occupato (da oltre un anno e mezzo) da un cantiere privato diventato ormai una discarica a cielo aperto. Nessuno immaginava che si arrivasse a tanto, alla deturpazione di un luogo straordinario, a beghe politiche e soprattutto ad una vicenda che aveva spaccato in due una comunità, tra favorevoli e contrari. Oggi molti si sono ricreduti perché alla fine quello che resta è una privazione per i cittadini di uno spazio pubblico nel cuore del centro storico, uno squarcio che resterà comunque nella storia religiosa e laica della nostra comunità.
Il presente lavoro di ricerca di Carlo Luigi ABBENDA è un rifacimento letterario di un opuscolo pubblicato da padre Raimondo SBARDELLA o.f.m. (di San Francesco a Ripa di Roma) in occasione del 350° anniversario della stigmatizzazione di S. Carlo da Sezze, dell’ordine dei Frati Minori Francescani, ( prodigio avvenuto a Roma nell’ottobre 1648 dentro la Chiesa di S. Giuseppe a Capo le Case).
( LA VITA DI SAN CARLO )
San Carlo nella sua autobiografia ( intitolata “Le Grandezze della Misericordia di Dio”) racconta le proprie origini nel modo seguente:
«Nacqui or dunque, per quello che si ricava nella fede di battesimo, ai ventidue di ottobre 1613, in giorno di martedì, e ai ventisette del medesimo mese, in giorno di domenica, fui battezzato, e mi posero nome Giovan Carlo» (Opere complete, I, 265; in seguito sarà indicato solo il volume e la pagina). Ancora: «Chiamavasi mio padre Ruggero Marchionne e mia madre Antonia Maccione, ambedue nativi dalle antiche famiglie di Sezze, città della reverenda Camera Apostolica» (I, 260).
(Comunque chi volesse approfondire la questione sulla precisa data di nascita del Santo e sul suo cognome, può vedere: I, 41 ss).
I suoi genitori e la nonna materna, Valenza Pilorci, furono i suoi primi veri educatori, esemplari, assidui e generosi di consigli e di disciplina cristiana. I principi basilari, che fra Carlo, facendo eco alle parole del padre, dice fondati nella legge di natura, scaturivano dalla parola di Dio: «Non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te; fai agli altri quello che vuoi che sia fatto a te» (I, 261). Nonostante questi buoni presupposti e le doti positive che l'arricchivano, germogliò in lui l'istinto della prepotenza e della sopraffazione, tanto che lo chiamavano il gallo di casa (I, 269). L'inizio degli studi scolastici, favoriti dalla intelligenza pronta e dalla vivacità incontenibile, furono ostacolati dalla deviazione di letture non pertinenti, fino a giungere ad una ribellione clamorosa, con conseguente «frustatura» (I, 68ss).
Di fronte a tali risultati catastrofici, Gian Carlo si ridusse al lavoro dei campi e a pascolare i buoi, da lui stesso richiesti al padre.
In questa attività si ritemprò nella salute e si radicò nella vocazione religiosa con maggiore precisione nella scelta dello stato di fratello laico tra i Frati Minori, dimoranti nel locale convento di 5. Maria delle Grazie. Questa sua decisione incontrò svariate e forti opposizioni, particolarmente nello zio materno, don Francesco Maccione, il quale voleva che diventasse prete, e per convincerlo gli promise il suo canonicato; in seguito accondiscese che si facesse frate, ma sacerdote.
Non ci furono ragioni che potessero prevalere sulla sua volontà. Jl 10 maggio 1635 salutò i suoi e si recò a Roma, 5. Francesco a Ripa Grande, per essere ricevuto all'Ordine e il 18 maggio successivo vestì l'abito religioso nel convento-noviziato di 5. Francesco in Nazzano e fu chiamato fra Cosimo. A un anno esatto emise la professione religiosa e per richiesta della madre gli fu di nuovo cambiato il nome in fra Carlo, e cominciò il suo pellegrinaggio nei vari conventi laziali.
Il primo fu 5. Maria Seconda di Morlupo, non molto distante da Nazzano: cominciò ad impratichirsi nei lavori imparati nel noviziato: orto e cucina. Nell'ottobre del 1637 fu destinato al convento di 5. Maria delle Grazie di Ponticelli Sabino. Nel novembre del 1638, mentre si trasferiva da Ponticelli al convento di 5. Francesco in Palestrina, ricevette la notizia della morte della madre, già presentita nel suo intimo; il padre era morto nell'agosto del 1636. A Palestrina cominciò a sperimentare le prime estasi propriamente dette e iniziò a fare il questuante.
Nel marzo del 1640 fu mandato nel convento di 5. Giovanni Battista del Piglio, ma nell'aprile seguente fu destinato a fare il sacrestano a Carpineto Romano, dove rimase fino al marzo del 1646. Quivi fu sottoposto ad una incomprensibile persecuzione da parte di un confratello e ad una furibonda tentazione di lussuria; fu sollecitato a scrivere sulla passione di Cristo, e nel 1645, durante la peste che sconvolse il paese, fu il benefattore e il confortatore degli ammalati, esponendosi al rischio del contagio (Il, 75ss).
Scrive il Santo: «Dopo aver sopportato, in questo convento di Carpineto, tante si spaventose e terribili tentazioni del demonio, del senso e degli uomini, si fece il nuovo Capitolo provinciale, e fu eletto per Ministro della Provincia il padre Giuseppe da Roma, della famiglia Rivaldi, che fu nel 1646 nel mese di marzo, nel tempo di Papa Innocenzo X» (Il, 93). Tale introduzione si richiedeva perché in questa occasione fra Carlo fu trasferito a Roma, nel convento di 5. Pietro in Montorio, sul Gianicolo, dove resterà per il resto della sua vita, salvo due brevi soste nel convento di 5. Francesco a Ripa nel 1650 e nel 1652.Nel 1647 viene assalito da una prepotente tentazione di vendetta contro gli uccisori dello zio don Francesco: «Il sangue non può diventare acqua», scrive egli. Fra Carlo vincerà la tentazione portando il perdono personalmente ai parenti degli assassini (Il, lO4ss). Nel 1648, a seguito di una punizione accettata con eroica rassegnazione, fu arricchito dalla trasverberazione del cuore nella chiesa di 5. Giuseppe a Capo le Case in Roma (Il, 136ss). Si snoda quindi un'altalena di comandi e di proibizioni di scrivere; diventa direttore spirituale di svariate persone, di monasteri, di prelati. Nel 1653 termina di scrivere il Trattato delle tre vie, nel 1657 il Cammino interno e nel 1660 i Settenari sacri; nel 1661 comincia Le grandezze delle misericordie di Dio, che termina nell'agosto del 1665. Intanto nel 1662 viene mandato a Napoli, monastero 5. Chiara, per direzione spirituale e nel 1666 accompagna il cardinale Cesare Facchinetti ad Assisi, Loreto, La Verna, Firenze. Altro viaggio nel 1669 a Spoleto, sempre dal card. Facchinetti, finché il 6 gennaio 1670 rende l'anima a Dio (Il, 515ss).
Dopo la morte inizia la raccolta di testimonianze sulla santità di fra Carlo da parte di P. Angelo Bianchineri da Naro, già suo confessore saltuario e consigliere assiduo, di Nicola Grappelli ed altri. Nel 1694 La Congregazione dei Riti decretò di aprire il processo sulla fama di santità, virtù e miracoli; iniziò così una trafila che si dimostrò, per varie cause, piuttosto laboriosa: Clemente XIV dichiarò l’eroicità delle sue virtù il 14.06.1772, la congregazione generale per procedere alla beatificazione ebbe luogo nel 1875 e solo nel 1882 fu proclamato beato da Leone XIII (con breve del 1°.10.1881). Anche per la canonizzazione si ebbe un contrattempo: era stata programma per l'ottobre 1958, ma il 9 di quel mese morì Pio XII e così la glorificazione fu aggiornata per il 12 aprile 1959, e fu operata da Giovanni XXIII (II, 518ss). Il corpo riposa in 5. Francesco a Ripa. La festa liturgica, per l’ordine francescano, si celebra il 7 gennaio.
Fra Carlo fu impiegato in molte umili occupazioni, proprie del suo stato ( fece cioè il cuoco, l’ortolano, il portinaio, il questuante e il sagrestano ). In tali uffici fra Carlo si distinse per l'umiltà, l'ubbidienza, la pietà serafica e l'amore verso il prossimo, riuscendo ad unire alla più intensa vita interiore e contemplativa una instancabile attività caritativa e apostolica che lo condusse a Urbino, a Napoli, a Spoleto e in altre città.
Laici, sacerdoti, religiosi, vescovi, cardinali e pontefici si giovarono dell'opera di fra Carlo, che aveva avuto da Dio doni straordinari, tra i quali, in particolare, quelli del consiglio e della scienza infusa (riconosciuto, questo prorsus mirabile dal breve stesso della beatificazione. Il nostro santo predisse il supremo pontificato ai cardinali Fabio Chigi (Alessandro VII), Giulio Rospigliosi (Clemente IX), Emilio Altieri (Clemente X) e Gianfrancesco Albani (Clemente XI).
Deponiamo le armi, se guerra deve esserci facciamola sulle idee e sui valori
Scritto da Alessandro Mattei
Quando una discussione degenera è cosa buona e giusta fermarsi e ragionare a mente fredda, con maggior capacità di controllo sui propri istinti. Le chat e soprattutto i social network purtroppo non ci aiutano, anzi sono strumenti destinati sempre ad amplificare eventi e a fare da cassa di risonanza laddove, magari, “in presenza” questo o quello non sarebbe nemmeno successo. È accaduto in passato, sta accadendo oggi e accadrà in futuro, e ce ne dobbiamo fare una ragione, ma è sempre auspicabile che alla fine prevalga il buon senso e soprattutto non si cada mai nell’offesa e nell’invettiva personale. In questi giorni su facebook siamo stati spettatori passivi di un “botta e risposta” di pessimo gusto che va oltre la critica ad un modo di amministrare una città e a una visione dei problemi reali di una comunità. Abbiamo letto solo di attacchi personali che hanno avuto paradossalmente le medesime risposte di uguale sprezzo e sdegno. E’ veramente sconcertante e inquietante sapere che tutto ciò stia accadendo in una fase in cui anche la nostra comunità soffre, in un momento storico nefasto per tutti, in un periodo che, al contrario, ci dovrebbe vedere tutti uniti e solidali, in un clima di rispetto e collaborazione. Sembra di assistere ad una guerra di parole tra barbari che lottano per lo stesso obiettivo. Stiamo vivendo un disagio senza precedenti e leggere di ricorsi, di querele e di denunce fa male a tutti, soprattutto ai protagonisti di queste tristi e sbagliate storie. L’appello che personalmente mi sento di fare, a chi è in grado di accoglierlo, è di deporre le asce e ragionare molto sul danno sociale e culturale che si sta producendo ad una comunità già debole e smarrita. Abbiamo tutti bisogno di punti di riferimento sani, abbiamo bisogno di confronti costruttivi e di idee utili per uscire dal pantano in cui siamo sprofondati. Siamo una città con l’acqua alla gola e senza collaborazione rischiamo di annegare. Se guerra deve proprio esserci, spero che ci sia sui valori e sulle proposte per Sezze e non su discorsi di lana caprina.
Finalmente se ne ricomincia a parlare! Spero che il capitolo dei servizi sociali e sanitari diventi uno dei temi più caldi e più presenti nella prossima campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio Comunale di Sezze. Il livello della civiltà di un popolo si misura dal grado di qualità e di efficienza dei servizi socio-sanitari offerti alla comunità e alle persone. Ciò è vero soprattutto in questi giorni terribili della pandemia. Il sentimento di solidarietà della prima fase del virus si è spezzato, e oggi domina la rabbia e la protesta. Ognuno di noi sta perdendo l’identità del cittadino per trasformarsi in individuo solo, arrabbiato, incapace di solidarizzare con gli altri. Restiamo delusi dalle decisioni assunte di volta in volta dal Governo e dalle Regioni e dalle condizioni in cui versa, da anni, la sanità: vaccini che mancano, attese e file chilometriche per il tampone, ambulanze in coda davanti agli ospedali, ventilatori polmonari insufficienti, personale medico e paramedico carente… Eppure a Sezze, negli anni '70 e '80 del secolo scorso, le cose andavano diversamente. La nostra cittadina ha rappresentato per un certo periodo un modello di welfare state. Si sono sperimentate e realizzate azioni inclusive, di solidarietà e di accoglienza concreta, che sono state prese ad esempio da molti altri Comuni: inserimento degli alunni disabili a scuola, assistenza domiciliare, ambulatori nei quartieri, Centro diurno, centri sociali, assistenza alle famiglie bisognose, servizio di fisioterapia e di logoterapia, medicina scolastica, vacanze per anziani e per bambini, la ludoteca ecc. Un lungo elenco di azioni positive che denotano una attenzione mirata verso le fasce più deboli e più fragili. A Sezze, dunque, non si parte da zero! C’è un patrimonio di esperienze che non va dimenticato! Oggi, però, siamo chiamati ad agire in un contesto sociale ed economico completamente diverso, che ci obbliga ad aggiustare il tiro e adeguare il nostro intervento alle nuove disabilità, alla disperazione di tanti ragazzi, al rifugio di molti di loro verso la droga, alle tante famiglie separate e divorziate, alle ragazze madri, all’abbandono degli anziani, alla violenza contro le donne, ai fenomeni di bullismo e di razzismo, alla mancata applicazione della legge sul “dopo di noi”, etc. Viviamo in una società dove conta più l’apparire che l’essere, dove la fa da padrone la ricchezza e il successo, costi quel che costi. Che fare, allora? Sono necessarie alcune condizioni preliminari. Occorre innanzitutto una mappa aggiornata e puntuale della situazione esistente sul territorio e, soprattutto, una stretta connessione e interdipendenza tra il sociale e il sanitario: l’uno senza l’altro rischia di non avere senso e di non produrre alcun risultato utile. Il disagio fisico ha sempre ripercussioni e risvolti di tipo sociale e viceversa. Un’altra condizione è il tipo di approccio verso la persona bisognosa. Si deve trattare di un incontro solidale e, direi, familiare, perché esso viene immediatamente avvertito e interiorizzato dalla persona fragile. Come si evince, in conclusione, gli interventi e le problematiche socio-sanitarie sono molteplici e delicate e per ognuna di esse occorre studio e competenza. Non ci si deve affidare mai al caso e all’ improvvisazione. Con una avvertenza generale: non serve e non basta il solo aiuto assistenziale e temporaneo. Ciò che occorre è una strategia di lungo respiro, un intervento strutturale. Si deve rispondere alla richiesta di un diritto della persona e non a una elargizione compassionevole o a una elemosina.
Jerry Boakye ha smesso di lottare e ne è andato in silenzio, in punta di piedi e nel disinteresse generale, soprattutto del circo mediatico. Costretto su una sedia a rotelle, era provato dalla fatica e dal dolore, stanco di una vita consumata tra le pareti asettiche della struttura sanitaria che lo aveva accolto e si era da tempo spento per lui anche l’ultimo barlume di speranza. Aveva soltanto 31 anni.
Tutto è iniziato una sera di luglio del 2017. Jerry, migrante ghanese in Italia da più di 10 anni, allora 28enne, si alza dal suo posto sull’autobus che ogni sera lo riporta a casa da Castel Volturno, dove lavora come saldatore, e avverte l’autista che deve scendere alla fermata. Muove qualche passo nel corridoio ma tra lui e l’uscita si è messo di mezzo un uomo di 60 anni. “Scusa, devo scendere” gli dice Jerry a bassa voce. L’uomo rimane immobile, indifferente, non risponde. “Per favore, mi fai passare?- domanda di nuovo Jerry. Nessuna risposta e nessun movimento. Jerry insiste una, due, tre volte. L’uomo reagisce infine. Lo manda a quel paese ed a seguire lo fa oggetto di una serie spaventosa di insulti razzisti. Jerry non reagisce, non risponde nulla, riesce a farsi largo tra i passeggeri e supera, senza neppure sfiorarlo, l’uomo. Si avvicina all’uscita, il pullman si ferma e, mentre si appresta a scendere, gli arriva un pugno violentissimo alla schiena che lo fa precipitare giù e rovinare sull’asfalto. A sferrarlo è l’uomo che si era frapposto tra lui e l’uscita. Un pugno alle spalle talmente preciso e ben assestato da rompergli una vertebra, procurargli una lesione irrimediabile al midollo spinale e lasciarlo paraplegico, paralizzato a vita. Tuttavia non contento, l’uomo scende anche lui dal pullman, lo raggiunge quando è riverso a terra e si avventa sul suo corpo inerme con pugni e calci, in conseguenza dei quali Jerry perderà anche l’uso di braccia e mani.
Jerry ha sempre lavorato come saldatore a Castel Volturno, ha fatto il parcheggiatore e d’estate anche il bagnino nei lidi sulla costa della Campania e del Lazio. Insomma è una persona perbene, un lavoratore che ha sempre cercato di guadagnarsi da vivere onestamente in una terra difficile e di illegalità diffusa, dove tanti invece ricorrono a furbizie ed espedienti e si mettono al servizio della malavita.
Il paradosso è che l’uomo sporge denuncia contro di lui per aggressione e lesioni. Ovviamente anche Jerry sporge denuncia. Grazie alle indagini delle forze dell’ordine e della magistratura di Santa Maria Capua a Vetere emerge la verità, l’uomo viene arrestato ed è attualmente sotto processo. Jerry non conosceva il suo aggressore, non lo aveva mai visto né incontrato e quest’ultimo, un italiano del posto, senza alcun motivo prima lo ha insultato con frasi razziste e poi è passato alla violenza fisica.
Inizia il calvario di Jerry. La diagnosi non lascia scampo ed è definitiva: paraplegia degli arti inferiori e diparesi degli arti superiori. La condizione di paralisi in altri termini è irreversibile. Non può fare nessun gesto motorio in autonomia, è costretto su una sedia a rotelle 24 ore su 24, non può lavorare e vivere normalmente, essendo perennemente dipendente dagli altri anche per i suoi bisogni vitali e dovendo essere assistito da medici ed infermieri. Dopo la degenza in ospedale viene ricoverato nell’unica struttura che gli possa garantire una lunga degenza, una clinica per malati mentali. E siamo davvero all’assurdo.
Negli ultimi tempi Jerry peggiora, si lascia andare, rifiuta cibo e terapie, non ha più voglia di reagire e di vivere, ucciso dalla rassegnazione, dall’impossibilità di vedere per sé un futuro dignitoso e soprattutto da un razzista violento e abominevole.
Ora la sua agonia è terminata e Jerry ci lascia senza avere avuto giustizia.
Un finale giusto per questa storia non esiste e non poteva esistere, come non c’è alcuna spiegazione per una vita spezzata, perduta, cancellata, considerata carta straccia e gettata via, ma solo un senso di smarrimento e di agghiacciante orrore.
La vicenda di Jerry ci racconta di una violenza vile, assurda e gratuita, frutto di un clima di odio e intolleranza, pervicacemente inoculato nel corpo vivo della società, nel sentire collettivo, scientemente sobillato soprattutto da certa politica che persegue unicamente l’obiettivo di lucrare facili consensi, facendo leva su paure e insicurezze delle persone, additando semplicisticamente e proditoriamente lo straniero e il diverso come il nemico, accusandoli di tutti i mali e di tutti i problemi che affliggono la nostra società, sdoganando un linguaggio brutale e arrivando a giustificare di fatto l’estremismo ideologico e le iniziative di gruppi radicali non prendendone le distanze, non condannandoli e anzi strizzando l’occhio accondiscendente verso i loro capi e responsabili. Il razzismo è disprezzo e rifiuto dell’altro e della diversità, negazione della libertà di poter essere , vivere, camminare, realizzarsi.
Il dolore e l’amarezza per quanto accaduto, per la cattiveria e il disprezzo che infarciscono i discorsi di tanti, per la non comprensione e la minimizzazione della gravità degli episodi di razzismo che avvengono nel nostro paese, per l’assuefazione alla predicazione dei seminatori di odio, per l’incapacità di reagire in modo fermo a fenomeni manifesti di disumanità sono solo in minima parte mitigati dalla gara di solidarietà apertasi intorno a questa vicenda, dal sostegno anche economico di tanti che hanno permesso a Jerry di poter essere ricoverato e assistito adeguatamente fino all’ultimo istante della sua sfortunata esistenza. Il mio pensiero va al personale sanitario che lo ha accudito amorevolmente, alla dottoressa che lo ha seguito ed accompagnato tenendolo per mano, ai tanti che lo hanno aiutato concretamente tra i quali voglio menzionare una donna di grande sensibilità, umanità e generosità, di cui mi onoro di essere amico, Celestina Morando. Rimasta annichilita da tanta violenza è stata vicina a Jerry, facendosi promotrice con altri della raccolta dei fondi necessari per sostenere le visite neurochirurgiche, fisioterapiche, riabilitative e le spese mediche, anche attraverso i concerti di fundraising organizzati dall’Associazione Culturale Herbie Goins.
Nel buio che sembra avvolgerci ci sono luci di speranza, gesti di umanità capaci di cambiare il corso degli eventi e restituirci l’umanità perduta.
Una lettera per te oggi la scrivo io, mio caro amico Bruce.
È già da qualche settimana che ascolto e riascolto il video musicale di Letter to you, il brano portante del tuo ultimo album che uscirà oggi 22 ottobre 2020, con lo stesso titolo, in tutto il mondo. Lo acquisterò e lo ascolterò tutto attentamente, te lo prometto, intanto ti racconto qualche mia impressione su questo ennesimo piccolo gioiello.
Mi presento: in questi ultimi 40 anni, nonostante io sia nato e cresciuto dall’altra parte del tuo mondo, non troppo lontano da quel Vico Equense da cui partirono i tuoi avi Zerilli e Sorrentino nel secolo scorso, non ci crederai ma tu sei stato una presenza costante nella mia vita. Ho atteso l’uscita dei tuoi album come si aspetta il ritorno di un amico, il proprio compleanno o la nascita di un neonato in famiglia. Sono stato anche spettatore di 6 tuoi concerti live in Italia, ho visto molte tue performance in DVD, ho apprezzato la tenerezza di Springsteen and I, mi sono gustato le numerose interviste e i più recenti live trasmessi in tv, anche la serie Springsteen on Broadway su Netflix, ed ho letto una ventina di libri a te dedicati, oltre alla tua autobiografia Born to run, uscita nel 2016.
Una volta, solo una volta, ho osato cantare in pubblico la tua Dead man waling durante un evento pubblico organizzato a sostegno di un condannato a morte negli USA.
Le tue canzoni hanno accompagnato tutta la mia crescita, fin da adolescente le ho sempre ascoltate avidamente, cercando di tuffarmi nel tuo personalissimo sound e capire bene il significato dei tuoi testi. E poi riprendere ancora le canzoni, anche quelle più vecchie, quasi da studioso, per cogliere tutte le tessiture musicali dei tuoi amici della E Street Band e a scovare altre chiavi di lettura e tutti i riferimenti dei tuoi versi, anche i più nascosti fino a farli sedimentare dentro di me. Anche adesso, a 58 anni compiuti, ti ascolto sempre, non posso fare a meno delle tue vecchie canzoni e aspetto con ansia ogni tua nuova mossa, anche quelle scritte con profondo senso civico durante le vigilie elettorali da Hard times negli States. Non è successo solo con te, sia chiaro, ho altri “amici” autori musicali, soprattutto italiani, che non ho perso mai di vista e che sono stati - e lo sono ancora – i punti di riferimento costanti, i fari da non perdere nella navigazione della vita. Conosci Fabrizio De André?
Mi hai emozionato anche stavolta con Letter to you, hai colto nel segno col tuo sguardo sempre affilato e attento alle cose semplici ed importanti della vita. Dopo anni di dischi e di esibizioni in millanta concerti in giro per il mondo in cui hai invitato i giovani a guardare senza paura il buio della notte e incoraggiandoli affinché inseguissero i propri sogni, qualunque tipo di sogno, perché siamo tutti nati per correre in un altrove più roseo, dopo averci presentato i tuoi normalissimi ed umanissimi eroi just for one day alle prese col vortice della difficile quotidianità ma senza abbandonare mai la speranza, dopo averci invitati a salire a bordo del treno che ci porta verso un luogo migliore in cui aspettare fiduciosi altre serene ed assolate giornate, da un po’ di tempo hai iniziato a cambiare prospettiva e volgere lo sguardo anche altrove, sarà il tempo che passa...
Anche tu sei cambiato in questi anni, si vede anche dai tuoi capelli sempre più radi, stai invecchiando, càpita (non a tutti) nella vita caro vecchio amico fragile, così ti sei raccontato con molta onestà e franchezza nella tua autobiografia. Ti volti indietro sempre più spesso e prendi atto drammaticamente che molti dei tuoi amici di gioventù, tra cui alcuni dei tuoi cari e fraterni musicisti, non sono più lì con te a condividere musica e vita negli studi di registrazione e durante le tournée in giro per il mondo.
E allora scrivi lettere, lettere musicali che hanno il colore dolce/amaro di un’intimità fraterna ormai perduta, lo fai con un calore che arriva a riscaldare anche i nostri cuori di blood brothers.
******
“Neath a crowd of mongrel trees, I pulled that bothersome thread got down on my knees, grabbed my pen and bowed my head, tried to summon all that my heart finds true. And send it in my letter to you”
(Sotto un folto intreccio di alberi ho tirato via quel filo fastidioso e mi sono inginocchiato, ho preso la penna e ho chinato la testa, ho cercato di evocare tutto ciò che il mio cuore trova vero. E inviarlo nella mia lettera per te).
Sei da solo anche tu in questi momenti, non c’è più Clarance a sorreggerti come nella foto copertina più famosa di sempre, sei faccia a faccia con le assenze che non avresti mai voluto percepire. Anche Danny è volato via a suonare le sue tastiere altrove…due pietre miliari della prima E Street band. Una lettera per molti.
“Things I found out through hard times and good I wrote 'em all out in ink and blood, dug deep in my soul. And signed my name true. And sent it in my letter to you”
(Cose che ho trovato attraverso i tempi difficili e i buoni, le ho scritte tutte con inchiostro e sangue, ho scavato nel profondo della mia anima. E ho firmato col mio nome vero. E l’ho inviato nella mia lettera per te).
Tempi difficili e buoni, come càpitano a tutti noi, ti capiamo Bruce. E quando le persone che vorremmo avere accanto ci mancano da toglierci l’aria, allora scriviamo lettere, per lo più immaginarie. Tu Bruce le scrivi poeticamente in musica, con sangue e inchiostro, e le firmi col nome vero, quello da uomo in carne ed ossa più che da personaggio di copertina.
“I took all the sunshine and rain, all my happiness and all my pain, the dark evening stars and the morning sky of blue And I sent it in my letter to you”.
(Ho preso tutto il sole e la pioggia, tutta la mia felicità e tutto il mio dolore, le stelle della sera oscura e il cielo blu del mattino. E le ho inviate nella mia lettera per te).
“In my letter to you I took all my fears and doubts, in my letter to you all the hard things I found out. In my letter to you all that I found true and I sent it in my letter to you”.
(Nella mia lettera per te ho preso tutte le mie paure e dubbi, nella mia lettera per te tutte le cose difficili che ho trovato. Nella mia lettera per te tutto quello che ho scoperto di vero e l’ho inviato nella mia lettera per te).
Chi di noi non ha un amico ormai andato a cui scriverebbe volentieri una lettera affettuosa?
Tutti capiamo intimamente di cosa ci vuoi parlare con Letter to you, lo abbiamo provato sulla nostra pelle il tuo stesso sentimento, l’affetto verso qualcuno che non vedremo più camminare al nostro fianco.
******
Adesso ti sei messo davvero a nudo, Bruce. Tutte le esperienze di vita terrena, buone o meno buone, quelle che alcuni dei tuoi cari non possono più provare sulla loro pelle, quelle che adesso sei costretto a vivere nonostante la loro mancanza, padre, amico, fratello o altro, tu le raccogli in una splendida lettera-canzone e la invii a loro come segno di empatia e di affetto eterno. Come a dire: “Carissimo amico, qui il mondo va come sempre: alti e bassi, mari agitati e voli spettacolari…manchi solo tu”.
Qualcuno potrebbe storcere il naso e dire di non amare particolarmente questa tua vena malinconica del 2019 (l’album è stato inciso a novembre 2019), questo indulgere in sentimenti da autunno della vita, ma basterebbe guardare bene nei tuoi dischi, mettere da parte (solo per un attimo, per carità) i tuoi grandi successi festosi e ottimistici ed ecco affiorare un po’ ovunque germogli seminati qua e là diretti all’anima, dritti al cuore più intimo di ognuno di noi ascoltatori. Se provassimo a riascoltare attentamente Jungleland, Racing in the street, The ghost of Tom Joad, You’re missing, New York city serenade, I’m going down, solo per fare qualche titolo, scopriremmo che oltre alla versione “spritz” in cui canti, salti, balli e scherzi gioiosamente per 4 ore nei tuoi concerti, potremmo immaginarti da solo con la chitarra, nel chiuso delle tue stanze, quando ti abbandoni a ricordare, a ripensare nostalgicamente a persone e avvenimenti ormai passati. È così che ti viene la voglia di scrivere lettere e nuove canzoni che completano le gemme della tua corona dorata, fatta di canzoni che rimarranno per tutti sempreverdi sempre pronti a regalare colore alle nostre giornate, con qualunque sentimento ci apprestiamo a viverle? Io ti vedo così, ti immagino debole e forte allo stesso tempo, imbracciare la chitarra e dare parole al tuo cuore, alla tua testa.
Con questo nuovo album spero davvero che tu possa riproporci di nuovo anche le sonorità più sanguigne, quelle da cantare a squarciagola tutto insieme, che in tutta sincerità erano mancate nelle ultime tue produzioni, ci faresti davvero un bel regalo, uno squarcio di luce in questo duro 2020. Dall’alto dei tuoi 71 anni festeggiati il mese scorso - proprio in quel giorno ci siamo sposati io ed Alessandra, 25 anni fa e nella partecipazione per gli invitati c’era una frase di una tua canzone, pensa un po’… - e portati splendidamente, nonostante qualche ritocchino ringiovanente, sai ancora far centro nei cuori di noi innamorati tuoi fans.
Lunga vita my oldfriend Bruce, prenditi cura di te e stammi bene, ti ringrazio ancora per tutto quello che hai scritto e cantato, lo dico anche a nome dei mille e mille tuoi fedeli amici italiani: Our love is real.
IL FERVENTE APOSTOLO DI CARITA’
Nel secolo della ragione il diplomatico umanista Pietro Marcellino Corradini sceglie i poveri. Già in occasione delle calamità naturali che travolgono il Lazio, tra il 1701 e il 1706, egli si sforza in ogni maniera di alleviare le miserie corporali e spirituali di tutte le persone colpite da avversità. Per prima cosa il nostro benefattore (definito già dal contemporaneo cardinale Crescenzi quale persona delle più luminose “per dottrina e integrità di vita”) mette a disposizione dei poveri tutti gli ospizi di Roma: in essi,infatti, da quel giorno si accoglieranno figli orfani e persone anziane. La sua è quindi una scelta di vero apostolato cristiano che lo chiama a mettersi dalla parte dei derelitti e dei precari: proprio per questo motivo il nostro servo di Dio è ricordato anche quale “cardinale degli ultimi”. Sostenuto dalla ragione della carità e del suo motto “Credite operibus”, pur non abbandonando mai gli onerosi impegni culturali, il nostro cardinale predilige gli indigenti e verso di loro orienta la propria cura pastorale. Tra le sue iniziative ricordiamo la dedizione agli ebrei del “ghetto” e l’iniziativa per la costruzione dell’Ospedale romano di San Gallicano, la cui realizzazione suggerisce incessantemente a papa Benedetto XIII. Divenuto responsabile in prima persona di questo famoso nosocomio il Corradini chiama ad esercitare la propria missione ospedaliera Paolo “della Croce” , il futuro Santo fondatore dei Padri Passionisti, nonché suo fratello Giovanni. La Roma“Caput Mundi“ evidenzia miseramente uno spettacolo di profonda miseria: pur con tutto lo scintillio dei suoi sfarzosi palazzi e delle superbe chiese, in realtà la città è in balia di un profondo degrado di cui sono espressione schiere di zingari, cui si associano accattoni, ubriachi, zoppi, epilettici, infetti, incurabili e moribondi abbandonati al proprio destino. In mezzo a questo degrado materiale e spirituale, che gran parte della nobiltà e dell’aristocrazia vaticana preferisce ignorare, giganteggia la figura di questo nostro umile porporato che è animato da un potente fuoco di carità: il suo essere “cardinale”, per se medesimo, è segno di “santo” sacrificio cristiano. Nel 1726 l’ospedale è in piena attività curativa, sia corporale sia spirituale, ed è stracolmo di persone sofferenti, bisognosi d’ogni cura: il nosocomio si propone, in Roma, quale luogo di speranza per tanti volontari “samaritani” che qui si sono riversati per condividere l’ideale caritativo del Corradini, mai tentennante e mai soggetto a dubbi e a paure varie. Egli, con l’amore che non disprezza alcuno, divenuto titolare del titolo cardinalizio di Santa Maria in Trastevere, si aggira per le corsie fra gli ammalati, dà sollievo spirituale e presta soccorso a tubercolotici, tisici e lebbrosi. Per svariati anni il San Gallicano è per lui una casa d’accoglienza in cui “spezza” con gli altri il pane del dolore, fisso nell’ideale di carità che gli proviene dalla contemplazione assidua della Croce di Cristo. Corradini percorre incessantemente anche tutte le strade di Roma alla ricerca dei derelitti, sapendo bene che gli “onori” non hanno nessun valore di fronte all’esercizio della carità; egli sa bene, infatti, che l’unica e piena realizzazione d’ogni uomo e del perfetto cristiano è il donare al prossimo, soprattutto a quello più bisognoso ed indigente, i doni ricevuti e le proprie esistenze. Il nostro cardinale, Infatti, alla bell’età di 84 anni, nei giorni di una nuova ondata pestilenziale abbattutati in Roma nel 1743, non ha paura di esporsi in prima persona e di visitare ammalati e agonizzanti per dare loro il viatico della carità. Roma, come abbiamo ricordato, è un immenso lazzaretto di mendicanti, storpi, malarici, lebbrosi, appestati. Nei borghi soprattutto aleggia lo spettro della fame e della morte. Per le strade è un brulichio di disperati che ad ogni angolo ripetono scene di dolore, d’invocazioni e di continui pianti. La “peste” uccide migliaia di romani e non risparmia in quest’occasione Pietro Marcellino Corradini (di nuovo candidato al soglio pontificio) che, all’alba del 8 febbraio 1743, muore in Roma, nella sua residenza di Via Lata, per l’epidemia contratta: è la santa fine terrena di un’anima che ha profuso tutta la sua esistenza per il servizio verso i poveri e verso i diseredati. Se ne va così in cielo un principe della chiesa che, pur svolgendo, dentro e fuori i palazzi apostolici, ruoli di curiale e di diplomatico, è vissuto sempre preoccupato di offrire la dignità umana a poveri e a diseredati, favorendone la crescita in ambienti difficili. Questa complessa ma limpida figura d’uomo entra, nella luce della storia, servendo soprattutto la chiesa dei poveri: lo studioso, l’intellettuale, il giurista e il diplomatico…il prelato ricolmo d’onori… si è voluto distinguere soprattutto per la profonda carità cristiana che lo ha spinto incessantemente a dedicarsi pienamente ai poveri attraverso continue cure pastorali. Il nostro cardinale riposa presso la chiesa di Santa Maria in Trastevere di Roma, sotto un sepolcro policromo, innalzatogli dall’amico cardinale Marcello Crescenzi, in cui è inglobato un altorilievo marmoreo scolpito da Filippo della Valle. L’epigrafe latina, riportata nel monumento, illustra molto efficacemente il ritratto di questa fervente figura di cristiano, tutta ricolma di carità. Testimone,come Carlo Borromeo, del primato degli ultimi, protagonisti della storia e della fede, il Corradini viene a trovarsi in prima linea, accanto ai “santi” del suo tempo, nel desiderio di costruire, all'interno della comunità cristiana, una coscienza di servizio a favore dei “vinti”, di coloro che le classi del potere umiliano ed emarginano nei ghetti. Il beneamato Corradini ci ha lasciato una grand’eredità culturale e spirituale e copiosi “frutti” si sono manifestati dopo la sua morte. Tralasciando la menzione degli innumerevoli studi e delle svariate opere letterarie finora composte, segno tangibile della grande “statura” del cardinale (che ha sempre trascinato dietro di sé una massa di svariati studiosi) noi vogliamo ricordare ora alcuni enti e sodalizi che hanno da anni alimentato “il culto” del nostro “benedetto” porporato. Nel 1960, affiancando la casa generalizia delle suore Collegine palermitane, è sorto il “Movimento Amici del Cardinale Corradini”.Tale associazione, dal 10 giugno 1990 in poi, a Palermo ha organizzato appositi e ricorrenti convegni di studio sulla personalità del beneamato cardinale. A questo sodalizio si sono aggiunti, nell’opera di divulgazione delle virtù cardinalizie, dapprima il “Conservatorio Corradini” di Sezze, ente pubblico d’istruzione, quindi il “Centro Studi San Carlo da Sezze”. Tutte queste istituzioni, appoggiate dai Lions Club di Latina Mare, celebrano in vario modo la loro filiale devozione al cardinale rivendicando più volte l’eroicità delle sue virtù culturali e spirituali.In tutti, infatti, è sempre viva la speranza di poter presto veder riconosciuta in terra la beatitudine cristiana del venerato servo di Dio. Il 19 maggio 1993, nella cattedrale di Palermo, il cardinale Salvatore Pappalardo ha dato inizio al processo di beatificazione del “servo di Dio” Pietro Marcellino Corradini. L’iter istruttorio, per l’inchiesta sulla vita, le virtù e la fama di santità del Corradini, nella sua fase diocesana, è stato chiuso a Palermo il 17 ottobre 1999,con celebrazione presieduta dal novello arcivescovo cardinale Salvatore De Giorgi. Tutta la documentazione raccolta è ora al vaglio dell’esame della “Congregazione per le Cause dei Santi”, per i successivi adempimenti e sviluppi. Nel corso del giubileo dell’anno 2000, si sono svolte imponenti celebrazioni eucaristiche nella cattedrale di Sezze e presso la Basilica romana di Santa Maria in Trastevere, per il 342° anniversario di nascita del nostro diletto cardinale. Ricordiamo infine che nella medesima chiesa di Roma, lo scorso 25 febbraio 2007, si è ripetuta, in omaggio al Corradini, una solenne celebrazione, presieduta dal cardinale J. Saraiva Martins (prefetto della “Congregazione delle Cause dei Santi”), organizzata dal “Centro Studi San Carlo di Sezze”.
Altro...
“Per la poeticità della sua prosa nel romanzo ‘Le storie non volano’ ”. Con questa motivazione la giuria ha assegnato a Roberto Campagna il Premio speciale “Antica Pyrgos”. La premiazione è avvenuta domenica scorsa a Lanuvio, presso il Teatro Comunale. Giunto alla terza edizione, tale premio, oltre ai riconoscimenti ai vincitori delle sue cinque sezioni (libro di poesia edito, silloge di poesia inedita, racconto breve, monologo teatrale e fotografia), prevedeva l’attribuzione di sette premi speciali tra cui quello assegnato per l‘appunto a Campagna. È nato tre anni fa da un’intuizione di due poetesse e fa parte di una rassegna in cui l’elemento sensoriale, partendo dall’olfatto, si rende protagonista di un dialogo rinnovato tra cultura e natura, sensi e intelletto. Ecco perché ai vincitori di ogni sezione è stato donato un profumo e il premio è intitolato all’antica Limasol di Cipro. Qui sono state condotte otto campagne di scavi archeologici, che hanno riportato alla luce un vasto opificio di circa quattromila metri quadri del II millennio a.C., resti evidenti di uno dei primi impianti industriali dedicato alla distillazione dei profumi. Circa i profumi donati, erano gli Aromaticae Formulae “La Pelagia” di Benevento. Così come in altri suoi libri, Roberto Campagna, in questo romanzo ricorre alla metanarrazione. In pratica, racconta fatti realmente accaduti mischiandoli con altri creati artatamente da lui stesso. Ciò per rendere gli stessi fatti accaduti più credibili e quelli inventati più veritieri. Il racconto inizia nel 1985 e finisce nel 2010. Quattro i principali protagonisti: tre maschi e una femmina. Più che amici, sono compagni di gioco a carte. Le loro vite sono segnate dalla sfiga e le partite interminabili a briscola e tressette, che spesso non vedono né vinti né vincitori, sono la metafora delle loro stesse vite. Nel quadro narrativo, a fare in qualche modo da cornice, ci sono altre partite: gli scontri elettorali di Borgomanuzio. È qui, in questo borgo medievale, che è incentrato il romanzo di Campagna. “Cosa accade nella narrazione di questo libro meraviglioso – scrive Antonella Rizzo, giornalista e poetessa - è terreno, carnale, passionale ma anche paradossale per l’intreccio degli eventi di vita dei protagonisti. Intorno a un tavolo da gioco si riuniscono ogni giorno dei personaggi che rappresentano vizi e virtù dei piccoli borghi, descritti con un tratto verista addolcito dall’umanità resiliente alla sopravvivenza. Hanno vite apparentemente predestinate ma nel loro piccolo raggio d’azione si consumano grandi guerre, in bilico tra quotidianità ed eccezionalità. Si potrebbe dire che Campagna – conclude la Rizzo - è l’esponente di un positivismo contemporaneo che ricorda l’essenzialità dei sentimenti, favorisce la coscienza storica, ricuce l’atto politico al canovaccio della coscienza”. Si tratta di un romanzo sul gran teatro del vivere quotidiano così vero e così poetico, così duro e così patetico da risultare uno spettacolo che non lascia indenni. Tornando alla premiazione, oltre alla targa, a Campagna è stata donata un’opera della pittrice Emanuela del Vescovo. Ha fatto da corollario alla stessa premiazione la mostra allestita presso il Centro di archeologia sperimentale “Antiquitates” in cui è stata esposta la copia del distillatore usato proprio nell’antica Pyrgos e altri manufatti che illustravano come l’arte del profumarsi risalga all’età classica.
Roberto Campagna
Ci sono storie che meritano di essere raccontate, luci accese nel grigiore quotidiano che colorano di speranza il futuro. Ci sono persone in apparenza normali, ordinarie, giudicate insignificanti, che passano inosservate ai disattenti e ai superficiali, dotate invece di una forza sorprendente, capaci di toccare l’intimo di quanti le incontrano, di arrivare con immediatezza e semplicità nel punto di congiunzione tra mente e cuore, di mettere in discussione gli assetti ossificati dei vissuti personali, di orientare con la testimonianza del loro essere e vivere le scelte di quanti camminano loro accanto e perfino di cambiare il corso dei grandi avvenimenti umani.
In questi giorni la faccia sorridente di Carlo Acutis ha campeggiato sui social, della sua storia si sono occupati giornali e notiziari televisivi perché il 10 ottobre 2020 è stato proclamato beato: è il primo santo millenials. Definizione efficace dal punto di vista comunicativo, ma che forse non gli rende giustizia in pieno. Voglio soffermarmi sull’avventura umana di questo ragazzo nato nel 1991 e morto a soli 15 anni il quale, nonostante la brevità del tempo vissuto, non ha rappresentato una meteora, una folata di vento che si è dispersa nella dimenticanza, anzi ha segnato e continua a segnare la vita non solo dei familiari e di quanti lo hanno conosciuto e amato, ma anche di tanti ragazzi e giovani d’ogni parte del mondo e comunque è un interrogativo incessante a prescindere da punti di vista e convincimenti personali, dal credere o meno in Dio.
Chi è Carlo Acutis?
È un ragazzo cresciuto a pane e internet, come tutti i ragazzi del nostro tempo. Porta il nome del nonno, patron della Compagnia di Assicurazione Vittoria e nasce a Londra, dove i genitori si erano momentaneamente trasferiti poiché il padre all’epoca era manager di una banca d’affari. Ritorna con la famiglia a Milano e qui frequenta le scuole. Gioca a pallone, suona il sassofono, fa trekking in montagna, si diverte con i videogiochi, ama i film polizieschi, gira filmini con protagonisti i suoi cani e gatti e va in pizzeria con gli amici. Frequenta con profitto il liceo milanese dei gesuiti “Leone XIII” e gli amici lo amano per l’allegria che porta alla compagnia, anche se non cerca lo sballo ed è sempre misurato nei suoi sentimenti e nei suoi slanci. È un genio dell’informatica. Fin da piccolo gioca a fare lo scienziato informatico con tanto di camice bianco. Realizza video, fa montaggi con la sua telecamera, confeziona riviste online e progetta programmi per il computer. Studia sui manuali specializzati in uso nelle facoltà di ingegneria informatica e da autodidatta diventa un programmatore sempre più esperto. Tuttavia nella vita di Carlo Acutis il posto fondamentale è occupato dalla fede cristiana, che vive in modo profondo e radicale. È un innamorato di Dio. Manifesta questa sua inclinazione fin dalla più tenera età, tanto che chiede ed ottiene di fare la prima comunione a 7 anni anziché a 10, come avviene normalmente, partecipa alla Messa ogni giorno, prega il rosario e trova il tempo per l’adorazione eucaristica quotidiana, convinto che quando “ci si mette di fronte al sole ci si abbronza... ma quando ci si mette dinnanzi a Gesù Eucaristia si diventa santi”. Probabilmente la sua frase più famosa è: "L’Eucaristia? E’ la mia autostrada per il Cielo!". Utilizza le sue capacità informatiche per essere testimone della fede sul web, diventa un influencer di Dio. È ammirato e stimato dai suoi compagni di scuola e tra gli amici anche chi lo avversa e lo prende in giro per la sua fede, finisce per restarne affascinato, per farsi attrarre da lui. Carlo non è un alieno, ma vive nel suo tempo profondamente e concretamente, sforzandosi di essere se stesso, senza nascondersi, senza vergognarsi e senza cedere alla tentazione di fare proselitismo. Testimonia il suo essere cristiano semplicemente con la sua vita quotidiana.
Nel suo quartiere lo conoscono tutti. Quando passa in bicicletta si ferma a parlare con i portinai dei palazzi, molti dei quali sono stranieri e di religione musulmana e induista. Racconta loro di sé, della sua vita e della sua fede con semplicità e tutti ascoltano volentieri quel ragazzino così simpatico e affabile. A pranzo fa mettere in dei contenitori il cibo che avanza e li distribuisce ai clochard del suo quartiere. Con i risparmi personali compra un sacco a pelo per il clochard che incontra abitualmente quando va nella chiesa di Santa Maria Segreta, gli altri li dona ai Cappuccini di viale Piave che hanno una mensa per i poveri e i senzatetto, dove presta anche servizio come volontario. Rajesh il collaboratore domestico che vive in casa con la sua famiglia è induista, ma resta folgorato da lui e decide di convertirsi al cristianesimo. Di Carlo Acutis dice: “L’ho sempre considerato fuori dal normale perché un ragazzo così giovane, così bello e così ricco normalmente preferisce fare una vita diversa”.
Ai primi di ottobre del 2006 Carlo Acutis si ammala. Sembra una banale influenza, ma le sue condizioni si aggravano rapidamente e viene ricoverato all’Ospedale San Gerardo di Monza. Gli viene diagnosticata una leucemia fulminante, il tipo peggiore che non lascia scampo. Muore il 12 ottobre 2006. Il giorno dei suoi funerali la chiesa è gremita di persone che la famiglia non conosce e non ha mai visto prima: poveri, clochard, stranieri e tanti bambini, i quali si avvicinano al papà e alla mamma e parlano loro di Carlo, di tutto quello che ha fatto, testimoniano la sua vita. Viene sepolto ad Assisi, come aveva espressamente chiesto. Dopo la sua morte ai genitori iniziano ad arrivare migliaia di lettere di persone di vogliono sapere qualcosa di più di Carlo. È un’onda montante e inarrestabile: tanti giovani lo ammirano, cambiano vita e cercano di imitarlo.
Personalmente detesto le agiografie, i racconti edificanti, certo devozionismo che considero fuorviante e deleterio. Tuttavia sono rimasto affascinato dalla storia di Carlo Acutis, così lontano dagli stereotipi con cui siamo soliti rappresentare i ragazzi e i giovani del nostro tempo, il quale ha impiegato bene la sua vita impegnandosi nel volontariato e spendendosi per gli ultimi e i diseredati con assoluta generosità. Sono convinto che i nostri giovani hanno potenzialità enormi, sono capaci di grandissime cose anche fuori dall’ordinario, ma troppo spesso si trovano a fare i conti con molti di noi, cattivi maestri e pessimi esempi, credenti e non credenti in par misura. Penso che Carlo Acutis sia un modello a cui guardare, al di là delle convinzioni personali in materia religiosa e dei tanti pregiudizi che troppo spesso ci condizionano, per costruire insieme una società veramente umana, fondata su principi e valori solidi.
Tre classi in quarantena alla I.C. Pacifici Sezze-Bassiano per un caso di positività al Covid 19 di una docente. La dirigente scolastica Prof. Fiorella De Rossi, seguendo il protocollo sanitario richiesto, dopo la segnalazione alla Asl del nuovo caso setino, ha disposto quindi la quarantena per gli alunni della scuola media di Sezze fino al 25 di ottobre: si tratta di circa 40 alunni più gli operatori scolastici. Molto probabilmente gli studenti delle classi che hanno avuto contatti con la professoressa risultata positiva saranno sottoposti anche al tampone rapido così come gli altri professori e i collaboratori scolastici. Nell'istituto è stata già effettuata la sanificazione dei locali. Nessun allarmismo quindi per la scuola di Via San Bartolomeno ma necessarie e doverose misure di prevenzione.
Era una festa organizzata dagli studenti universitari che con spirito goliardico e al motto “gaudeamus igitur” riusciva a coinvolgere l’intero paese e celebrava la presenza sempre più numerosa degli universitari. Con tale festa gli studenti accompagnavano alla necessità dello studio il gusto della trasgressione, la ricerca dell' ironia, il piacere della compagnia e dell'avventura. Ad ogni studente, al momento dell’iscrizione al primo anno, veniva attribuito un numero di matricola che l’accompagnava per tutto il corso. Nel 1973, con l’introduzione del codice fiscale, il numero di matricola pur restando in vigore ha perso molto della sua originaria importanza. Nelle librerie universitarie, insieme ai libri era possibile acquistare la felùca, una sorta di cappello alla Robin Hood che si usava personalizzare con spille, medaglie e gadget di ogni genere, da sfoggiare alla festa della matricola del proprio paese. Il colore della felùca variava secondo la facoltà frequentata. Nel corso di laurea in Scienze Naturali avevamo una feluca di colore verde, gli studenti di Medicina e Farmacia di colore rosso, Lettere e Filosofia bianco o beige, Giurisprudenza azzurro, Ingegneria nero e via discorrendo. La festa della matricola non aveva un giorno prestabilito, cadeva normalmente in autunno all’inizio dell’anno accademico o nella primavera successiva. Ci si preparava una quindicina di giorni prima con la “questua” per le vie del paese, bussando ad ogni porta e chiedendo un modesto contributo in denaro con cui pagare le spese e la cena collettiva degli studenti. Gli universitari veterani sceglievano la malcapitata (ma non tanto) matricola tra gli iscritti al primo anno e nel giorno della festa la “battezzavano” attribuendole un nome demenziale e vergognoso, sottoponendola a sberleffi e canzonature. Per tale motivo non tutte le matricole ambivano ad essere prescelte, anzi, c’era sempre qualcuno che al momento della scelta si rendeva irreperibile, mentre le studentesse ne erano ovviamente dispensate. La matricola veniva condotta come un trofeo su uno dei carri allegorici trainati dai trattori e si faceva più volte il giro del paese con un enorme fracasso di fischietti, trombette, chitarre, cuticù e quant’altro capace di produrre suoni, tra canzonacce cantate in coro a squarciagola, fiaschi di vino bevuti a garganella e coriandoli gettati sui passanti e sui compagni come in un carnevale di Rio. Alla festa venivano ammessi anche gli studenti del Liceo e delle altre scuole superiori. Più il numero dei partecipanti era alto, maggiore era il divertimento. Alla fine di questa vera e propria scorribanda per le strade del paese la matricola veniva condotta su un palco precedentemente allestito in piazza dei Leoni oppure a piazza De Magistris per il tradizionale “processo alla matricola”, davanti ad una giuria di studenti veterani che quasi sempre erano anche i più “brilli” per il vino. La matricola sceglieva tra gli studenti uno o più avvocati di difesa che talvolta, anziché difenderla, si lasciavano andare a sproloqui più grandi dell’accusa, suscitando le risate ed il divertimento della nutrita folla di cittadini accorsi a godersi la serata. L’ultima festa della matricola a Sezze, se ben ricordo, si svolse alla fine degli anni Sessanta. Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti, il 1968 e l’autunno caldo del 69 dirottarono altrove l’interesse degli studenti, esplosero le proteste studentesche con tutta una serie di occupazioni delle Università e di rivendicazioni di diritti, alcuni legittimi, altri meno (voto politico, esami di gruppo, ecc) che sfociarono in scontri con la polizia e nelle lotte sindacali al fianco dei lavoratori. Era l’inizio di una nuova era. Peccato però che una così bella tradizione sia stata interrotta!